“L’allevamento intensivo di bestiame è responsabile di circa il 15% delle emissioni di gas serra antropogeniche (OCSE e FAO, 2021) ed è associato al degrado e all’esaurimento di terra, suolo e acqua, nonché alla perdita di biodiversità (Yitbarek, 2019)”: ecco perché occorre studiare l’ “effetto” dei nuovi cibi e delle proteine alternative sulle persone.
A ricordare questi aspetti un nuovo articolo di Maria Cecilia Mancini e Federico Antonioli del dipartimento di Scienze economiche e aziendali dell’Università degli studi di Parma – Italian consumers standing at the crossroads of alternative protein sources: Cultivated meat, insect-based and novel plant-based foods – pubblicato sulla rivista Elsevier, lo scorso agosto. A partire da questo assunto i due studiosi tornano di nuovo sul tema dell’accettazione da parte dei consumatori di nuovi prodotti di origine vegetale, alimenti a base di insetti e carne coltivata, “nel tentativo di inquadrare i principali driver e sfide socio-economici per ciascun prodotto rispetto alla percezione e all’accettazione da parte dei consumatori”.
Si tratta, infatti, di alimenti che rappresentano alternative reali, ma le cui caratteristiche sono ancora faticosamente accettate. E la carne coltivata, inoltre, provenendo da proteine di origine animale, non è presa in considerazione da alcune tipologie di consumatori che rifiutano cibi in cui sia presente qualche ingrediente animale. Ma la popolazione mondiale è in crescita così come sono in crescita in redditi dei Paesi in via di sviluppo: questa circostanza, sommata alla difficoltà del consumatore occidentale di ridurre il consumo di carne, fa ipotizzare un incremento della domanda globale di oltre due terzi entro il 2050, come rilevato dalla FAO già nel 2018.
Resta poi la preoccupazione di danneggiare l’industria della carne convenzionale, come alcuni rapporti prospettano, non tanto con l’incremento della produzione di sostituti della carne vegani e vegetariani a cui si è già abituati, ma attraverso lo sviluppo e la diffusione delle nuove proteine alternative. La carne coltivata, come si è visto, viene prodotta in laboratorio dove le cellule muscolari di bovini donatori vengono fatte proliferare affinché diventino fibre muscolari, gli insetti, invece, possono essere mangiati sia interi che come ingredienti di altri prodotti, che possono essere anche snack o hamburger; infine un’ulteriore alternativa è rappresentata dalle alghe.
La popolazione italiana, nello studio di Mancini e Antonioli, viene individuata come significativa, dal punto di vista dei consumi: infatti, essendo considerati gli italiani persone con buoni gusti alimentari, che allevano e producono prodotti DOP e IGP, un’eventuale loro propensione per i nuovi cibi potrebbe influenzare anche persone di altre nazionalità.
“Nel 2021 il consumo di carne in Italia è stato di circa 59 kg pro capite all’anno”, comprensivo di carne fresca e lavorata e sostituti della carne (solo 0,1 kg), coprendo tutte le tipologie di prodotti simili alla carne che si avvicinano a determinate qualità estetiche (in primis consistenza, sapore e aspetto) o caratteristiche chimiche di determinate carni”, si legge nello studio. Gli scienziati citano la fonte Statista che prevede nel mercato italiano si evidenzi “un leggero aumento dei consumi di carne come risultato di due dinamiche opposte: da un lato, un trend in aumento dei consumi di carne fresca e di sostituti della carne e, dall’altro, dall’altro, un trend decrescente del consumo di carne lavorata nei prossimi anni”.
Mancini e Antonioli citano uno studio di Coop del 2021 nel quale si registrerebbe già una certa percezione negativa da parte dei consumatori rispetto a ciò che la produzione e il consumo di carne porta con sé; diversamente risulterebbe essere forte l’attenzione per il benessere animale e il futuro del pianeta; infine, gli italiani, infine, in una percentuale dell’8% dichiarano anche di essere vegani o vegetariani, secondo una fonte Eurispes del 2021.
Tutto fa quindi pensare che una tendenza verso nuove fonti proteiche possa avere uno sviluppo considerevole in futuro. Per Mancini e Antonioli, insetti e alimenti a base vegetale potrebbero essere presi in considerazione da una buona fetta di popolazione, ma resterebbe, tuttavia, il punto debole legato al gusto e all’aspetto, ma anche alla consistenza. Il costo potrà essere determinante: “Al momento è molto difficile prevedere la quota di mercato che queste fonti proteiche alternative riusciranno a guadagnare nel mercato italiano – scrivono gli scienziati – ma sembra ragionevole ipotizzare un rapporto complementare, se non anche parzialmente integrativo, con la carne tradizionale”. Inoltre, aggiungono, “molti fattori giocano un ruolo nella diffusione di fonti proteiche alternative, tra cui il progresso tecnologico, il prezzo, la comunicazione dell’industria e, ultimo ma non meno importante, il supporto istituzionale. In effetti, quest’ultimo può costituire un punto di svolta per evitare aspri confronti tra il settore tradizionale della carne e le urgenze della società”. Ciò che, insomma, le politiche agroalimentari dovranno fare, per Mancini e Antonioli, è prendere “in considerazione gli effetti delle alternative alla carne sul lato convenzionale del processo produttivo, offrendo soluzioni economiche e finanziarie per sostenere e agevolare la transizione dal convenzionale all’alternativo, o fornire aiuti o soluzioni per evitare un massiccio l’uscita dal settore e le sue conseguenze assistenziali”. I giovani, poi, particolarmente sensibili ai temi ambientali, potranno proseguire e incrementare questa presa di direzione.
Chiara Affronte
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