Se le proteine microbiche fossero una strada verso la sostenibilità ambientale?

proteine microbiche

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Di fronte al cambiamento climatico, all’urgenza di ridurre le emissioni di gas nell’ambiente e di rivitalizzare un suolo ipersfruttato e avvelenato, il biologico è senz’altro una strada. Per molti “la strada”. A meno che non si decida di indirizzarsi anche verso altre possibilità offerte dalla tecnologia, come l’agricoltura cellulare il cui obiettivo è quello di ricreare alimenti che per proprietà nutritive, consistenza e gusto siano del tutto simili a quelli naturali, come ad esempio accade per la carne sintetica.

Rachel Marie Mazac è una ricercatrice del dipartimento di Scienze agricole dell’Università di Helsinki e lavora, come Hanna Tuomisto, nel gruppo che si occupa dei Futuri sistemi alimentari sostenibili (Future sustainable food system) e se le si chiede se ci sia una via tra l’agricoltura biologica e quella cellulare, allarga lo sguardo: “Credo che si possa parlare di molteplici percorsi di transizione verso un futuro più sostenibile; potrebbero un domani essere disponibili degli strumenti high-tech in grado di produrre cibo in determinate circostanze, ad esempio utilizzando l’abbondante energia rinnovabile solare per produrre proteine ​​microbiche: questo potrebbe permettere di risparmiare l’uso del suolo e la conseguente perdita di biodiversità”.

Mazac cita un articolo intitolato Can closed-loop microbial protein provide sustainable protein security against the hunger pandemic?. Current Research in Biotechnology, 4, 365-376 (Durkin, A., Finnigan, T., Johnson, R., Kazer, J., Yu, J., Stuckey, D., & Guo, M. – 2022) dove si parte dal presupposto che la domanda di proteine di origine animale è in crescita. Questo fatto è “uno dei principali motori della trasgressione del sistema alimentare dei limiti operativi ambientali sicuri, noti come confini planetari”. Ovvero quei confini ambientali (dall’inglese planetary boundaries, PB) entro i quali l’umanità può operare in sicurezza, mentre, al contrario oltrepassandoli, si entrerebbe in una zona di pericolo. Ad oggi è stato studiato un processo “a circuito chiuso in cui bioenergia e sostanze nutritive vengono recuperate dalle acque reflue di produzione di proteine ​​microbiche”, ad esempio, si legge nell’articolo. Queste proteine microbiche hanno “un ciclo di vita di produzione più breve rispetto alle proteine ​​del manzo di origine animale, e possono offrire così una soluzione tecnologica sicura ​​con impatti ambientali sostanzialmente mitigati”.

Pertanto si può considerare questo metodo come capace di soddisfare la domanda proteica prevista per il 2050, restando in una ‘zona di sicurezza’. Al contrario, le moderne pratiche agricole e lo sfruttamento delle risorse sono due tra i fattori principali dei crescenti rischi ambientali causati dalla trasgressione dei confini planetari. Ma, si legge ancora nell’introduzione all’articolo, “l’attuale aumento della popolazione globale e la prevista ‘pandemia della fame’- secondo cui si prevede un aumento di ulteriori 840 milioni di persone denutrite in tutto il mondo entro il 2030 – è essenziale una radicale revisione dell’attuale sistema alimentare e dell’economia “take-make-waste”. Con questi numeri, si prevede che richiesta alimentare aumenti del 70% nei prossimi 30 anni. E se si continuasse a produrre cibo nei modi con cui si è fatto fino ad ora, il suolo sarebbe ipersfruttato (oggi si contano 15 milioni di km2 di terre coltivate e 28 milioni di km2 di pascoli, ndr): tutto questo in un contesto in cui, già oggi, si stima che l’agricoltura sia responsabile del 25% delle emissioni di gas a effetto serra, dell’84% del consumo di acqua dolce e dell’85% della fissazione dell’azoto. Inoltre, i prodotti derivanti da animali contribuiscono all’incirca al 75% delle emissioni di gas serra e il bestiame consuma il 35% delle colture coltivate.

Fatto questo quadro, ipotizzare di dover produrre altra carne per sfamare tutta questa popolazione è impensabile; in questo senso le proteine microbiche possono essere una strada percorribile perché in grado di essere prodotte rapidamente, ma senza sfruttare il suolo; inoltre, si legge nell’articolo, l’esperienza insegna che sarebbero di aiuto in situazioni complesse come guerre o pandemia durante le quali gli approvvigionamenti possono essere difficili.

La prima microproteina è stata scoperta nel 1967 e ne sono già state studiate le grandi potenzialità. Ma non solo: l’articolo citato da Mazac parla anche dell’importanza delle produzioni a circuito chiuso, elencando gli esperimenti fatti attraverso i quali si sono recuperate sostanze microproteiche dalle acque reflue, ad esempio.

Ecco perché, Mazac ritiene che “anche le pratiche biologiche e agroecologiche facciano parte di una transizione più sostenibile per l’agricoltura e il sistema alimentare”, spiega. E aggiunge: “Queste pratiche proteggono i suoli, la biodiversità e devono, a mio avviso, far parte dei futuri sistemi alimentari, poiché non si tratta solo di pratiche tecniche, ma in qualche modo ontologiche, perché mettono in campo una prospettiva in cui si può produrre e consumare cibo in modo positivo”.

La ricercatrice del Future sustainable food system di Helsinki, tuttavia, pone un dubbio:“Se questa nuova produzione ad alta energia viene implementata prima di una transizione verso l’energia rinnovabile, allora potrebbero esserci implicazioni ambientali negative e un aumento delle emissioni di gas serra”. E cita, a questo proposito, un altro articolo, Estimated climate impact of replacing agriculture as the primary food production system. Environmental Research Letters, 16(12), 125010 (MacDougall, A. H., Rogelj, J., & Withey, P. – 2021) dove si ipotizza che “la sostituzione della produzione agricola primaria con la produzione microbica primaria alimentata elettricamente, prima che sia stata completata una transizione energetica a basse emissioni di carbonio, potrebbe reindirizzare l’energia rinnovabile lontano dalla sostituzione dei combustibili fossili, portando potenzialmente a maggiori emissioni totali di CO2”. Questo sarebbe un effetto boomerang. Ma, viceversa, “se la tecnologia fosse implementata dopo una transizione verso l’energia rinnovabile, potrebbe invece alleviare il cambiamento climatico causato dall’agricoltura”.

Chiara Affronte

Per approfondire l’inchiesta, leggi le puntate precedenti:

  1. Il dilemma dell’agricoltura cellulare e dei cibi coltivati

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