Etica ed estetica, due valori inconciliabili nel bio

Angelo Frascarelli ISMEA

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“La dicotomia tra etica ed estetica del prodotto bio è una partita persa nel canale della grande distribuzione”. Queste le conclusioni di Antonio Cogo, amministratore delegato di Veritas Biofrutta, l’asset del Gruppo Mazzoni che vende con il marchio Very Bio, che negli ultimi sei mesi ha registrato perdite di vendite di prodotto bio sugli scaffali, del 20% mese su mese.

“Le partite vengono spesso reclamate se per caso non raggiungono gli standard imposti dalla GDO – spiega -, e la crisi climatica non aiuta. Non esistono buyer specializzati sul bio per cui non si riesce proprio a dialogare sulla differenza di prodotto rispetto al convenzionale. Sembra che i professionisti con cui ci interfacciamo non sappiano proprio cosa significhi coltivare in biologico. Bisognerebbe farli venire in azienda, ospitarli per una settimana, per far capire loro come funziona. Un caso su tutti, il più recente, quello degli asparagi”.

A causa del clima, quest’anno, la campagna è iniziata in ritardo. Il freddo non li ha fatti germogliare e quando sono cresciuti, una gelata fuori stagione, ha reso i fusti incurvati e quindi invendibili. “Adesso che finalmente si sta partendo – denuncia Cogo -, le catene che serviamo ci stanno imponendo sin da subito delle promozioni a sei euro al chilo quando, non solo per il tipo di coltivazione del prodotto, ma anche per l’andamento climatico di questa campagna, il riconoscimento giusto sarebbe quello di 8 euro al chilo. È inutile nascondersi dietro un dito: le logiche della GDO sono in netta antitesi con quelle del biologico. Il buyer ragiona in un’ottica di redditività per metro lineare. Se uno scaffale non raggiunge gli obiettivi di guadagno, si sostituiscono i prodotti con altri che ruotano meglio. Così sta avvenendo, negli ultimi mesi per i prodotti bio freschi che stanno patendo molto la concorrenza di quelli convenzionali. Stanti così le cose, ho notizia di molte aziende che producono bio, in Sicilia e Puglia, che sono state messe in vendita per mancanza di redditività”.

Tra le ipotesi su cui gli operatori del settore stanno ragionando per ‘restituire a Cesare quel che è di Cesare’, c’è quella ad esempio di sviluppare delle figure professionali della GDO specializzate nel bio oppure creare negozi di prossimità delle insegne esclusivamente dedicati al bio, oppure ancora focalizzare l’offerta nei PDV. “Ad esempio – specifica Cogo – se si cercano delle carote, in quel negozio il consumatore troverà solo l’offerta bio”.

L’anello di congiunzione tra etica ed estetica, per Giovanni Battista Girolomoni, presidente presso Gino Girolomoni Cooperativa Agricola, specializzata nella produzione di pasta con grano italiano 100% bio, è l’equità, uno dei principi fondanti del movimento bio.

“Non bisogna pretendere troppo da una normativa tecnica e rimanere solidamente attaccati ai disciplinari – ci dice Girolomoni, che da poco ha ottenuto la certificazione di equità dal WFTO -. Bisognerebbe avere in mente anche i principi, non tradotti in norma del movimento bio. Tra questi quello dell’equità che guarda alla sostenibilità di una produzione a tutto tondo, a cominciare dalla giusta redditività lungo la catena di fornitura. In questo senso, rimango perplesso quando vedo la dicitura ‘pasta a residuo zero’. Nel processo di trasformazione, i residui di campo è normale che spariscano, senza utilizzare nessun tipo di accorgimento per arrivare al prodotto finito senza residui. Questo non vuol dire che la certificazione bio non abbia valore. Solo che deve essere considerata come un punto di partenza su cui costruire un percorso di valorizzazione e aggiornamento continuo”.

Il dialogo tra distribuzione e produzione sul fronte della dicotomia etica ed estetica è reso ancora più complicato dal momento che l’incidenza dell’agrifood bio italiano è ancora bassa (4%) rispetto al totale. L’80% di quello che l’Italia certificata produce, infatti, viene esportato in Europa o nei Paesi terzi.

Ma anche il mercato europeo sta cambiando, rivelando una sorta di inconciliabilità tra l’etica del bio e le logiche di mercato. Si pensi al caso di uno dei principali retailer tedeschi (Edeka) ha appena riorganizzato l’ufficio dei buyer, chiudendo quello bio e affidando gli acquisti certificati al dipartimento dedicato ai prodotti convenzionali. Tutto questo, sempre in un’ottica di ragionamento di redditività per metro lineare.

Gerhard Eberhöfer, responsabile VIP per il biologico, una proposta la avanza, mentre tuttavia si sofferma a ragionare sul fatto che “il mercato chiede prodotti belli, ma il biologico è comunque innanzitutto etico”, quindi, per lui, “l’Europa dovrebbe intervenire affinché, come nel convenzionale, i prodotti biologici siano classificati con due diversi tipi di categoria”. Infatti, ad oggi, succede che i prodotti biologici rientrano tutti in una seconda categoria, all’interno della GDO perché la classificazione viene fatta sulla base dell’estetica. Quindi, una mela di ottima qualità, biologica e senz’altro coltivata in modo etico, risulta però comunque di seconda categoria a causa di alcune piccole imperfezioni. “Non sto parlando di un prodotto marcio, ovviamente, ma di piccoli difetti di produzione, se così vogliamo chiamarli: il filo di ruggine in più a confronto con altre mele, ad esempio, un colore un po’ diverso…”, spiega Eberhöfer. Ecco che il mercato deve fare spazio a questo tipo di prodotto, in modo tale che il consumatore lo riconosca.

Non basta essere bravi come Val Venosta, dove gli agricoltori biologici sono molto esperti e lavorano in modo indiscutibilmente avanzato, perché tra il 25% e il 30% del prodotto rientra comunque nella seconda categoria per la merce da tavola, mentre per l’industria solo il 15% è considerato di prima qualità. Insomma, il concetto è che sia compratore che consumatore “si aspettano una ‘classica’ prima qualità” dal prodotto biologico, senz’altro per ciò che riguarda il mercato italiano, interno, perché sul fronte tedesco è diverso. 

“Se il compratore considerasse primo prezzo un prodotto con qualche difetto, che però è qualitativamente ottimo e certificato, forse si potrebbe invertire la tendenza”, puntualizza Eberhöfer, secondo il quale, in questo senso, il ruolo dell’Europa potrebbe e dovrebbe essere cruciale: “Non sono cose che possono decidere i singoli, ma servirebbe, benché ad oggi il Regolamento non lo preveda, prendere in considerazione due categorie, in modo tale che un certo tipo di consumatore potrebbe rivolgersi ad un prodotto di qualità, senza difetti e con un prezzo più alto, e un altro tipo di consumatore all’altra categoria”.

In un contesto simile, anche la comunicazione ha un ruolo strategico per far capire che non si può volere il biologico e la perfezione insieme: “così come non si può pretendere di arrivare da Bolzano a Bari in bici o in macchine e impiegarci lo stesso tempo…”.

Chiara Affronte
chiara.affronte@gmail.com

Mariangela Latella
maralate@gmail.com

Per approfondire l'inchiesta:
1. Il bio al bivio tra etica ed estetica. Intervista a Carnemolla
2. Etica VS estetica nel bio. Cosa ne pensano i grandi player

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