D’Elia (Suolo e Salute): Esplicitiamo i costi del NON bio per dimostrare la sostenibilità del bio

Alessandro D'Elia

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È ora di “svecchiare” l’immagine del biologico come un modello bucolico di agricoltura. Niente di più sbagliato, perché, al contrario, il biologico richiede una professionalità vera e strutturata, necessaria per andare verso il futuro. Ne è convinto Alessandro D’Elia, direttore generale di Suolo e Salute, che interviene nel dibattito sull’agricoltura biologica, in bilico tra un’idea spesso sbagliata diffusa tra le persone e la propensione per uno sviluppo tecnologico a supporto del metodo.

– Le aziende biologiche sono imprese che devono stare sul mercato: come si coniuga questa esigenza con l’immagine che viene spesso comunicata all’esterno del biologico?

“Per le imprese agricole del biologico è tempo di investire, perché la strada obbligata è quella della competitività e della redditività. È tempo di compiere un salto di qualità nella comunicazione e per svecchiare il concetto sbagliato che accompagna il biologico e lo dipinge ancora come amatoriale, quasi hobbistico e a tecnologica zero.  L’agricoltura biologica non è un ritorno al passato, ma, al contrario, un viaggio affascinante verso un futuro sostenibile. Penso che i cittadini europei abbiano ben chiaro questo concetto: lo dimostra il fatto che, con l’avvio della nuova Politica agricola comune, dall’inizio del 2023, si è innescata la sfida di portare il metodo di coltivazione bio al 25% delle superfici agricole del vecchio continente, entro la fine del decennio. Un obiettivo ambizioso per la PAC, voluto proprio dalle associazioni di consumatori, dai gruppi di opinione e dai privati cittadini che hanno partecipato numerosi alla consultazione pubblica appositamente attivata dalla Commissione Europea. Al bio viene riconosciuto il suo bassissimo impatto ambientale, la capacità di impiegare l’energia e le risorse naturali in modo responsabile, conservando la biodiversità, l’equilibrio ecologico, la salute del suolo, la qualità delle acque, la stabilità del clima. Il bio, inoltre, favorisce il benessere degli animali allevati, la salute dei consumatori e – perché no – il reddito degli agricoltori. Un mix di obiettivi vecchi e nuovi, comunque impegnativi, che richiedono l’applicazione del massimo grado di competenza e preparazione, anche nell’utilizzare le nuove tecnologie digitali, sia da parte dei produttori agricoli che di tutte le altre professionalità che orbitano nella galassia del bio: dai tecnici, ai distributori, ai certificatori, persino da parte dei comunicatori. Insomma, non c’è bisogno di far vedere galline svolazzanti nei prati per raccontare le virtù del biologico…”.

– Come si può comunicare l’esigenza di sostenibilità sul mercato con quella la richiesta che dal mercato di chi sceglie o sceglierebbe il bio arriva, e cioè di prodotti che siano salutari per le persone e rispettosi dell’ambiente? 

“La crisi inflattiva innescata da guerra e pandemia sta dando l’illusione ai detrattori del bio di poterne mettere in discussione la sostenibilità economica per una presunta minore produzione per ettaro che farebbe crescere i costi di produzione. Credo che si tratti solo di un modo vecchio e superato di vedere le cose nuove: un’ipocrisia che non può fare breccia su consumatori motivati e informati. Giordano Bruno sosteneva che è il pensiero che genera la materia e non il contrario. La carica innovativa del biologico deriva dall’ ‘eresia’ di anticipatori come il professor Francesco Garofalo, principale ispiratore più di 50 anni fa della nascita dell’Associazione Suolo e Salute, la realtà da cui si è poi sviluppata l’esperienza del nostro ente di certificazione. La sua ‘giusta visione’ di un’agricoltura in grado di produrre alimenti sani nel rispetto e salvaguardia dell’agroecosistema, mantenendo la fertilità del terreno e preservando le falde acquifere, ha incontrato nel tempo il favore dei movimenti ambientalisti, ha fatto da innesco al riconoscimento normativo dell’agricoltura biologica e oggi risponde in pieno alle esigenze della generazione del movimento Fridays for future, con le sue giuste preoccupazioni per il futuro climatico del nostro pianeta. Per dimostrare definitivamente la sostenibilità del biologico basterebbe rendere espliciti, magari sui banchi di vendita, i costi nascosti degli alimenti non bio, in termini di consumo di risorse non rinnovabili, di emissione di gas serra, di ingiustizia economica e sociale, ecc. La produzione di cibo è chiamata ‘settore primario’ perché sta alla base dello sviluppo della nostra intera economia. L’idea che la remunerazione delle esternalità positive, dei servizi ecosistemici offerti del bio debba continuare ad essere disgiunta dalla valorizzazione dei suoi prodotti va contro ogni regola di libero mercato e rischia di produrre solo diseconomie”.

– Allevamenti intensivi e allevamenti bio: quali sono le differenze da comunicare sul piano del benessere animale? 

“Nulla di nuovo: gli allevamenti intensivi sono oggi in forte discussione per l’impatto notevole sull’agroecosistema. Infatti, sono responsabili di un maggiore inquinamento del suolo e dell’acqua, compromettono la biodiversità e sono anche causa di elevate emissioni di gas serra. Inoltre gli animali allevati senza il rispetto del benessere sono più esposti a zoonosi, anche trasmissibili all’uomo, e di conseguenza soggetti a una larga somminsitrazione di antibiotici, con gravi rischi di comparsa di resistenze. In alcune trasmissioni televisive d’inchiesta si sono addirittura visti allevamenti dove gli animali sono ‘umiliati’ e sottoposti a sofferenze indicibili. E qui l’uomo-allevatore perde ogni senso di umanità. Il consumatore è oggi sensibile al tema del benessere animale e il rischio è che gli errori di alcuni mettano in discussione tutto il settore zootecnico. Invece, occorre comunicare che un’alternativa sostenibile sul piano ambientale, sociale e anche economico non solo è possibile, ma è già esistente. La zootecnia biologica è l’alternativa perché pone al centro, da sempre, il benessere degli animali allevati. È, infatti, imperniata sul rispetto degli spazi vitali, sull’alimentazione corretta degli animali, con mangimi bio e non OGM, sulle cure veterinarie omeopatiche e con scarsissimo ricorso agli antibiotici. Il bio dà la giusta importanza all’accesso al pascolo, alla riproduzione naturale senza l’utilizzo di ormoni o altre sostanze chimiche e al rispetto delle fasi di crescita nel rispetto dell’etologia degli animali senza ‘spingerli’ a una produzione esagerata. Il vero valore aggiunto, l’elemento su cui fare leva per valorizzare questo settore, è la certificazione degli allevamenti. Il biologico si basa sulla fiducia dei consumatori, una fiducia conquistata sui mercati di tutto il mondo grazie anche ad un sistema di certificazione di processo che si basa sulla terzietà, affidato a strutture private sottoposte alla vigilanza pubblica. L’affidabilità del sistema di controllo è il vero ingrediente che fa la differenza per tutelare il bio. Tanto e vero che la prima mossa dell’Unione europea, per sostenere l’obiettivo di crescita del bio, anche nel campo della zootecnia, è stata quella di rafforzare proprio il sistema di controllo attraverso misure precauzionali più rigorose e verifiche più approfondite lungo tutta la filiera. Ovvero attribuendo più responsabilità agli operatori e agli enti di certificazione. Insomma, gli allevamenti biologici sono la sintesi perfetta tra benessere animale e benessere ambientale, sono garantiti a più livelli e ciò oltre ogni penoso tentativo di interessato discredito”.

Chiara Affronte

Per approfondire l’inchiesta, leggi le puntate precedenti:
1. Giadone (Natura Iblea): "Basta con l'immagine bucolica del Bio"
2. Frascarelli (ISMEA): L’agricoltura Bio è oggi quella più avanzata
3. Monti (Alce Nero), dura critica all’incoerenza del bio che provoca dubbi nei consumatori

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