Il mercato delle mele biologiche è a rischio saturazione se non si rafforza la domanda. Secondo alcuni grandi attori del comparto, se la produzione italiana continuerà a crescere, da qui a due anni potrebbe esserci sul mercato un eccesso di prodotto. Anche per questo, Assomela ha inaugurato un ‘tavolo del bio’ con il compito proprio di realizzare una sorta di catasto delle produzioni melicole certificate. Un tavolo aperto anche ai produttori del convenzionale. Un incontro si terrà la settimana prossima e servirà a fare il punto degli impianti che sono ancora in conversione e tentare di mappare tutti quelli esistenti lungo la Penisola.
“La difficoltà principale – afferma Klaus Hölzl, sales manager del gruppo VOG -, è riuscire a capire quanta produzione di mele bio c’è già in Italia. Dei due milioni di tonnellate di mele che produce il nostro Paese ogni anno, circa 1,3 milioni provengono dal Trentino Alto Adige. Come organizzazioni che operano in maniera aggregata, sappiamo, delle nostre colture, quali sono bio e quali no. Però è difficile capire il quantitativo di bio prodotto nel resto dell’Italia e sopratutto capire quanto di questo prodotto è destinato al mercato del fresco e quanto al mercato della trasformazione. Nel caso di VOG, il bio rappresenta attualmente il 10% dell’intera produzione. Allo stato attuale, essendo la domanda di mercato in lenta crescita, dobbiamo proprio per evitare l’ipotesi di uno tsunami commerciale. Penso che per i prossimi due anni la domanda e l’offerta rimarranno in equilibrio ma il problema potrebbe presentarsi già dal 2023, vista la gran mole di conversioni al bio in corso, determinate anche dalla maggiore remuneratività del produttore. Se vogliamo che l’equilibrio si mantenga, dobbiamo lavorare a far crescere la richiesta del mercato”.
Restiamo in Alto Adige. Fabio Zanesco, sales manager di VIP, l’Associazione delle cooperative ortofrutticole della Val Venosta: “Sarebbe estremamente utile, al fine di una programmazione appropriata, sapere quanti volumi certificati ci siano sul mercato. Dobbiamo lavorare per obiettivi concreti ed evitare che una saturazione di prodotto possa tornare indietro come un boomerang e vanificare gli sforzi. Il vero problema non sono tanto i grossi gruppi perché sono già organizzati, ma la mole indefinita di piccoli produttori che producono bio e di cui non si riesce, al momento, ad avere traccia in quanto a volumi e superfici. Molti sono collocati in regioni che storicamente non facevano bio come Piemonte, Emilia Romagna e Veneto. La stessa Francia, che prima era importare netto di mele bio, adesso è diventata un Paese esportatore”.
La remuneratività del melicoltore bio arriva anche al 50% in più rispetto convenzionale, afferma Carola Gullino, manager dell’omonimo gruppo frutticolo piemontese. “Il nostro gruppo – precisa Cartola Gullino – non produce solo mele che tuttavia rappresentano il suo prodotto principale. Delle 30 mila tonnellate di frutta che produciamo ogni anno, 11 mila sono dedicate al kiwi e la metà è bio; circa 22 mila sono mele, per circa il 40% biologiche. Ma non stiamo pensando di espandere la produzione melicola certificata. Piuttosto stiamo andando ad esaurire quella convenzionale sostituendola, in questa fase di mercato in cui si deve lavorare sulla domanda, con mele club. Abbiamo appena chiuso i contratti con un grosso produttore emiliano-romagnolo, per costituire dei club prodotto intorno a due specifiche varietà di mele simili alle Gala. Gli accordi con i produttori sono appena stati chiusi, quindi presumo che potremo arrivare con la produzione a regime tra due/tre anni”.
Mariangela Latella