Perché il “residuo zero” oggi? L’interrogativo si giustifica perché si riprende un concetto non nuovo, sorto nella seconda metà degli Anni Ottanta nell’ambito del baby food. Ancora prima che il biologico diventasse un fenomeno di consumo, l’agro-industria impegnata nel settore degli alimenti per la prima infanzia, era obbligata ad acquistare prodotti agricoli a “residuo zero”. In alcuni Paesi, fra cui la Germania, vi erano legislazioni che per tali prodotti prevedevano che i residui dei prodotti fitosanitari dovessero essere inferiori a 0,01 ppm per ogni sostanza attiva autorizzata. Norma che in meno di un decennio divenne europea e da cui deriva la semplificazione semantica del “residuo zero”.
Nell’ultimo triennio abbiamo assistito alla riesumazione, in primis da parte della GDO, del concetto di “residuo zero” applicato al più vasto settore del fresco, cercando di attrarre il consumatore affascinandolo con il concetto del free-from (libero o senza qualcosa) che, applicato ai residui dei prodotti fitosanitari, invade l’immaginario di ciò che il consumatore principalmente ancora cerca nel prodotto biologico, ovvero l’assenza di residui.
Tale operazione rischia di creare una competizione, non del tutto leale, con il biologico sia sul piano agronomico-ambientale che sul piano economico, in termini di remunerazione a monte lungo la filiera. Sul versante agronomico ed ambientale il “residuo zero” è un prodotto convenzionale per il quale il sistema produttivo è tenuto a definire una linea tecnica di difesa fitoiatrica coerente con l’obiettivo di contenere i residui entro il limite di 0,01 ppm. Può, pertanto, non considerare tutte le altre tecniche agronomiche e di processo che, olisticamente, si ispirano ai principi ed ai criteri del metodo di produzione biologico (rotazioni, lavorazioni del suolo, fertilizzazione, irrigazione, scelta di specie e varietà, densità di impianto, gestione della pianta, etc). Si aggiunga che dall’ultimo piano di monitoraggio pubblico eseguito nel nostro Paese, il ministero della Salute, su 6.352 campioni di prodotti ortofrutticoli ben 3.153, il 48,3%, risultava privo di residui, senza neppure aver messo a punto una norma tecnica di protezione delle colture orientata al contenimento dei residui.
Da queste poche considerazioni si evince come il “residuo zero” sia molto diverso dal biologico. Enfatizzando l’assenza di residui si rischia tuttavia di confondere il mercato ed il consumatore spingendolo a soddisfare la richiesta di assenza di residui rivolgendosi ad una tipologia di prodotto i cui “contenuti ambientali” sono ben più angusti del biologico ed i cui prezzi sono inferiori. Ciò porta a diseducare il consumatore in merito ai contenuti del biologico favorendo uno spostamento della domanda, in un momento non certo fra i più facili per questa, verso il “residuo zero” convenzionale. Approfondendone i contenuti, si tenga presente che non necessariamente il “residuo zero” deve essere in sintonia con i dettami della produzione integrata volontaria poiché deve solo corrispondere al limite promesso in termini di residui.
Nei confronti della filiera, il rischio consiste in uno scoraggiamento circa l’introduzione di processi produttivi sostenibili, non tanto perché il “residuo zero” sia aprioristicamente insostenibile ma perché l’obiettivo del mero residuo non porta il sistema produttivo a preoccuparsi dell’insieme delle tecniche colturali da adottare. Aggiungo, inoltre, che il processo di revisione che in ambito UE porterà nell’arco di qualche anno a ridurre ulteriormente la disponibilità dei prodotti fitosanitari di sintesi chimica, condurrà giocoforza a sostituire tali prodotti con sostanze naturali (corroboranti, potenziatori delle difese naturali delle piante, biostimolanti, etc) che favoriranno il raggiungimento del contenimento dei residui senza il ricorso a tecniche particolarmente indirizzate verso la sostenibilità. Sul piano economico, trattandosi di un prodotto convenzionale, viene valorizzato come tale e non consente di far arrivare ai vari attori che intervengono lungo la filiera un maggior valore aggiunto come invece accade nel caso del biologico.
La promozione del “residuo zero”, almeno in questo frangente storico, non va certo nella direzione del New Green Deal, che prevede che entro il 2030 il biologico raggiunga almeno il 30% della SAU sul totale della SAU in ambito UE. Per raggiungere gli obiettivi del Green Deal è necessaria maggiore coerenza e cooperazione lungo la filiera e la domanda di biologico deve aumentare, e non deprimersi, per dare soddisfazione economica ad un’offerta che speriamo debba crescere.
Tornando alla domanda iniziale non ho una risposta ma solo alcune considerazioni, fra cui quelle appena svolte, che non giustificano un “ritorno al passato”.
Fabrizio Piva
Residuo Zero, per il bio è concorrenza sleale
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Perché il “residuo zero” oggi? L’interrogativo si giustifica perché si riprende un concetto non nuovo, sorto nella seconda metà degli Anni Ottanta nell’ambito del baby food. Ancora prima che il biologico diventasse un fenomeno di consumo, l’agro-industria impegnata nel settore degli alimenti per la prima infanzia, era obbligata ad acquistare prodotti agricoli a “residuo zero”. In alcuni Paesi, fra cui la Germania, vi erano legislazioni che per tali prodotti prevedevano che i residui dei prodotti fitosanitari dovessero essere inferiori a 0,01 ppm per ogni sostanza attiva autorizzata. Norma che in meno di un decennio divenne europea e da cui deriva la semplificazione semantica del “residuo zero”.
Nell’ultimo triennio abbiamo assistito alla riesumazione, in primis da parte della GDO, del concetto di “residuo zero” applicato al più vasto settore del fresco, cercando di attrarre il consumatore affascinandolo con il concetto del free-from (libero o senza qualcosa) che, applicato ai residui dei prodotti fitosanitari, invade l’immaginario di ciò che il consumatore principalmente ancora cerca nel prodotto biologico, ovvero l’assenza di residui.
Tale operazione rischia di creare una competizione, non del tutto leale, con il biologico sia sul piano agronomico-ambientale che sul piano economico, in termini di remunerazione a monte lungo la filiera. Sul versante agronomico ed ambientale il “residuo zero” è un prodotto convenzionale per il quale il sistema produttivo è tenuto a definire una linea tecnica di difesa fitoiatrica coerente con l’obiettivo di contenere i residui entro il limite di 0,01 ppm. Può, pertanto, non considerare tutte le altre tecniche agronomiche e di processo che, olisticamente, si ispirano ai principi ed ai criteri del metodo di produzione biologico (rotazioni, lavorazioni del suolo, fertilizzazione, irrigazione, scelta di specie e varietà, densità di impianto, gestione della pianta, etc). Si aggiunga che dall’ultimo piano di monitoraggio pubblico eseguito nel nostro Paese, il ministero della Salute, su 6.352 campioni di prodotti ortofrutticoli ben 3.153, il 48,3%, risultava privo di residui, senza neppure aver messo a punto una norma tecnica di protezione delle colture orientata al contenimento dei residui.
Da queste poche considerazioni si evince come il “residuo zero” sia molto diverso dal biologico. Enfatizzando l’assenza di residui si rischia tuttavia di confondere il mercato ed il consumatore spingendolo a soddisfare la richiesta di assenza di residui rivolgendosi ad una tipologia di prodotto i cui “contenuti ambientali” sono ben più angusti del biologico ed i cui prezzi sono inferiori. Ciò porta a diseducare il consumatore in merito ai contenuti del biologico favorendo uno spostamento della domanda, in un momento non certo fra i più facili per questa, verso il “residuo zero” convenzionale. Approfondendone i contenuti, si tenga presente che non necessariamente il “residuo zero” deve essere in sintonia con i dettami della produzione integrata volontaria poiché deve solo corrispondere al limite promesso in termini di residui.
Nei confronti della filiera, il rischio consiste in uno scoraggiamento circa l’introduzione di processi produttivi sostenibili, non tanto perché il “residuo zero” sia aprioristicamente insostenibile ma perché l’obiettivo del mero residuo non porta il sistema produttivo a preoccuparsi dell’insieme delle tecniche colturali da adottare. Aggiungo, inoltre, che il processo di revisione che in ambito UE porterà nell’arco di qualche anno a ridurre ulteriormente la disponibilità dei prodotti fitosanitari di sintesi chimica, condurrà giocoforza a sostituire tali prodotti con sostanze naturali (corroboranti, potenziatori delle difese naturali delle piante, biostimolanti, etc) che favoriranno il raggiungimento del contenimento dei residui senza il ricorso a tecniche particolarmente indirizzate verso la sostenibilità. Sul piano economico, trattandosi di un prodotto convenzionale, viene valorizzato come tale e non consente di far arrivare ai vari attori che intervengono lungo la filiera un maggior valore aggiunto come invece accade nel caso del biologico.
La promozione del “residuo zero”, almeno in questo frangente storico, non va certo nella direzione del New Green Deal, che prevede che entro il 2030 il biologico raggiunga almeno il 30% della SAU sul totale della SAU in ambito UE. Per raggiungere gli obiettivi del Green Deal è necessaria maggiore coerenza e cooperazione lungo la filiera e la domanda di biologico deve aumentare, e non deprimersi, per dare soddisfazione economica ad un’offerta che speriamo debba crescere.
Tornando alla domanda iniziale non ho una risposta ma solo alcune considerazioni, fra cui quelle appena svolte, che non giustificano un “ritorno al passato”.
Fabrizio Piva
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