Il futuro del Bio? Uno dei nodi cruciali passa dalla GDO

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Il mondo del Bio europeo è pronto a fare lo “scale-up” produttivo in vista dell’obiettivo europeo del 25% in più delle superfici di SAU certificate entro il 2030. Contemporaneamente, nell’Unione si sta preparando, con i fondi messi a disposizione dalla Commissione per la promozione, una gigantesca operazione di “building demand” per fare assorbire l’aumento produttivo in arrivo.

La filiera e l’intero movimento bio europeo lavora sulla sostenibilità dello scale up e sul rimanere fedeli ai principi alla base della certificazione organica, anche nelle produzioni su vasta scala. Eppure, ancora nessuno ha fatto i conti con l’anello di congiunzione, che di fatto collegherà l’aumento esponenziale dei volumi di prodotti agroalimentari bio atteso nel giro di pochi anni, con i consumatori di questo tipo di prodotti e, in prima battuta, con la grande distribuzione organizzata che si è affacciata solo recentemente nel mondo della produzione certificata senza, ad oggi, modificare le sue logiche, verso la massimizzazione dei profitti. In seconda battuta la mega rete europea del green public procurement, ossia mense scolastiche, ospedaliere, ecc.

Tornando alla GDO, è un nuovo soggetto economico nella filiera dei prodotti organici, che, pur essendo necessario per lo scale up (insieme al green public procurement), rimane del tutto esclusa dalle politiche del Green Deal europeo. Non ha nessun vincolo, anche minimo, che la avvicini alle logiche del Bio, nessun percorso formativo previsto per i suoi addetti sul senso della presenza del Bio sul mercato.

Non c’è nemmeno un codice doganale specifico per le merci Bio che arrivano dai Paesi Terzi, che regolino correttamente le importazioni in coerenza con gli obiettivi di un movimento che nasce, oltre quarant’anni fa, per rispettare il benessere dell’ambiente, degli animali, delle persone e la loro salute.

Come possono avvicinarsi questi obiettivi alle logiche di ottimizzazione del profitto che sono proprie del DNA della grande distribuzione organizzata? Perché sul fronte dell’offerta di un prodotto biologico, e sui tanti progetti di etichetta che comunichi la sostenibilità di questi prodotti, alternativi al Nutriscore, non si prende in considerazione anche il parametro di una distribuzione sostenibile? In che modo la massiccia campagna di building demand sui prodotti organici che sta partendo in Europa, e che di fatto, come tutte le campagne promozionali, verosimilmente, ha il potenziale di fare crescere i consumi del prodotto promosso, di almeno un 20% in più, garantirà che i principi del movimento bio, eletto a modello produttivo salvifico nell’Unione europea, non verranno snaturati proprio nella fase finale della filiera, nella distribuzione massiccia dei (nuovi) volumi, soprattutto in considerazione del nostro presente in cui il consumatore, anche quello abituale di prodotti bio, esce impoverito, da due anni di pandemia e ulteriormente bastonato dalle conseguenze sull’economia globale della guerra in Ucraina? Quanti sono i margini sui quali sia i produttori di bio che i grandi distributori possono lavorare per garantire che le aziende del settore possano essere messe in grado di continuare a produrre senza finire schiacciate dalla competizione dei prezzi, anche con gli importatori da Paesi terzi per i quali, peraltro, non esiste, se non in due o tre casi, un’armonizzazione delle normative sulle certificazioni di bio, che sono tutt’oggi in mano ad enti privati con grandi sperequazioni nei diversi Continenti, soprattutto nei grandi Paesi importatori in Europa come Africa e Sudamerica?

Una sperequazione che oggi più che mai rende urgente accordi europei con Paesi terzi che prevedano condizioni di reciprocità?

Sono queste, alcune domande che non hanno trovato ancora una risposta fattiva nelle buone intenzioni politiche europee non ancora corroborate ancora da un’analisi costi benefici dello scale up del movimento bio.

Per lo meno questo è quello che è emerso nel corso dello European Organic Congress, il congresso europeo del mondo del bio, che si è tenuto la settimana scorsa a Bordeaux, in Francia.

La focalizzazione certosina (e fondamentale) su temi quali, ad esempio, le modalità per garantire l’implementazione della resilienza delle filiere, la necessità di aggiornare i regolamenti europei vigenti con nuovi trattamenti ammessi e soprattutto di semplificarli, o anche le esperienze alternative (tutte alla fase di test) su etichette per il Bio che informano il consumatore in maniera dettagliata sulla sostenibilità dei prodotti che scelgono di acquistare (che si troveranno anche e soprattutto nei supermercati), ha distolto lo sguardo del Movimento dal fatto che la campagna di building demand avrà, in sostanza, il potere di spostare l’attenzione – a livello distributivo – dai tradizionali negozi di bio, da sempre parte integrante delle filiere, verso soggetti di mercato molto più grandi e aggregati che fino a meno di un lustro fa, non avevano neanche un assortimento bio e che si trovano a doverlo costruire con logiche che, nulla lo vieta, potrebbero essere anche molto lontane da quello che, fino a cinque anni fa era un settore nicchia per pochi illuminati produttori e consumatori.

Per gli operatori di mercato presenti al congresso ed intervistati da Green Planet, l’ingresso della GDO nel Bio va vista come una cosa positiva dal momento che, ci spiegano, si tratta di grandi soggetti che hanno la forza finanziaria di fare gli investimenti necessari per iniziare a sviluppare questo tipo di canale. Ma non esiste neanche l’ombra di una strada maestra dal punto di vista legislativo.

Fatti alla mano: la strategia Farm to fork prevede, fra l’altro, lo stimolo di pratiche sostenibili nei settori della trasformazione alimentare, del commercio all’ingrosso e al dettaglio, alberghiero e dei servizi di ristorazione, con tanto di codice di condotta UE per pratiche commerciali e di marketing responsabili, la promozione di un consumo alimentare sostenibile e l’agevolazione al passaggio a regimi alimentari sani e sostenibili. Sono possibili anche incentivi fiscali, previsti servizi di consulenza, condivisione di dati, conoscenze e competenze.

L’obiettivo è che l’intera filiera alimentare (produzione, il trasporto,  distribuzione, commercializzazione e consumo) di prodotti alimentari, abbia un impatto ambientale neutro o positivo. Ma non una parola sul canale mainstream: la GDO. Neanche un banale vademecum. Un documento che rifletta sul ‘come fare’ anche vista l’aspra competizione sul prezzo, spinta in avanti dalla corsa dei discount.

Peraltro, fa anche specie che, alcuni dei test di etichetta, come l’interessante esperienza feancese del Planet Score, alternativa all’insostenibile leggerezza del Nutriscore, vengano condotti anche in molti discount, quali ad esempio Lidl che da hard discount, è diventato soft discount ed è pronto, a questo punto, al passaggio di “de-discountizzazione”.

L’etichetta in questione prende in considerazione diversi indici di produzione per dimostrare la sostenibilità del prodotto, ma nulla è richiesto al distributore che non solo non è parte dell’etichetta, ma che rimarrà, salvo diverse indicazioni, saldamente ancorato alle sue logiche di massimizzazione del profitto.

Logiche che saranno tanto più facilmente perseguibili tanto più l’attuale mondo produttivo e distributivo del bio, sia pure in espansione, rimane ancora fortemente disaggregato.

Come si pongono i mercati europei di fronte a questo ‘gap’ di attenzione sia legislativa che operativa?

La Germania, tra i primi Paesi europei importatori di prodotto certificato, secondo quanto dichiarato da Jürn Sanders, presidente di FIBL Europe, l’Istituto di ricerca dell’agricoltura biologica con sedi in Svizzera, Germania, Austria e Francia, “è un Paese che al momento è in fase attendista sull’evolversi della situazione”.

Per contro, Laure Verdeau, direttore della francese Agence Bio ha affermato: “Il mercato francese è gestito per l’80% dalla grande distribuzione con player come Carrefour Auchan, Leclerc. Dobbiamo prendere questi soggetti e completare il canale distributivo avendo in mente che si tratta di avviare un processo di integrazione nel movimento di oltre 3mila punti vendita. Ad oggi la distribuzione francese di bio è fatta da piccoli retailer, artigiani, piccoli dettaglianti o anche da vendita diretta, sia individuale che con GAS, che in Francia registra una crescita dell’8% con 27mila punti vendita.

Il punto debole del sistema distributivo francese è il food service perché il 95% dei consumi Bio si fanno ancora in famiglia mentre il canale Horeca è molto meno organizzato (5% della quota di mercato). In questo senso c’è molto margine di crescita in questo canale. Il punto è, come possiamo crescere nei territori anche in considerazione del fatto che, a causa della crisi, il volume d’affari del settore Agrifood francese, quest’anno perderà 5 miliardi di euro di fatturato, ossia 5 miliardi di euro di merce, complessivamente intesa, non saranno acquistati quest’anno”.

Le potenzialità del canale Horeca sono state evidenziate anche da Charlotte Bladh André, ceo di Organic Sweden, la quale ha riferito come la Svezia abbia innalzato l’asticella della SAU coltivata a Bio in Europa, al 30%, 5 punti percentuali in più rispetto agli obiettivi della Commissione. “Dobbiamo lavorare sulla ristorazione ma è il canale retail che registra le maggiori perdite di fatturato con un meno 7,5% – ha spiegato Bladh André -. C’è una sorta di oligopolio nel mercato con le grandi catene che lo dominano e quindi il mondo del Bio ha un grande impatto sul mercato. A causa della pandemia però, i dati hanno iniziato a decrescere in linea con l’andamento globale”.

Sulla disorganizzazione del settore retail si è espresso anche Pierrick De Donne, presidente di Maison de la Bio / Biocoop.  “C’è una sorta di  disorganizzazione nel settore – ha detto – e c’è competizione anche tra etichette. È innegabile che la leva prezzo gioca un ruolo importante anche alla luce del fatto che le famiglie hanno perso potere di acquisto. Al momento la domanda è maggiore dell’offerta ma gli equilibri potrebbero cambiare con l’evoluzione delle politiche di Green Deal”.

In molti Paesi europei, come Olanda, Finlandia e Belgio, sono iniziate campagne di promozione dentro i punti vendita per promuovere il Bio e in Svezia, è al test, anche presso il principale retailer nazionale ICA, il progetto di etichetta alternativa al Nutriscore, che si chiama Planet Score che valuta il livello di sostenibilità dei prodotti bio in base ad alcuni indici presi in considerazione.

“Con il PlanetScore- spiega uno dei massimi esperti italiani di bio, Roberto Pinton -, si cerca di anticipare possibili criticità e di portarsi avanti stabilendo uno standard di riferimento valido che eviti il rischio del “Todos caballeros”. È facile prevedere che, come fanno pressioni contro il Nutriscore, parte dell’industria e del mondo agricolo faranno il tifo per sistemi più “morbidi”, che propongano come sostenibili sia l’attuale produzione integrata che magari diserba con glifosate contaminando le acque superficiali e profonde o tiene le vacche chiuse in stalla e le alimenta con mangimi OGM. Si tratterebbe di una mistificazione e di un inganno dei consumatori che  va scongiurato”.

Il layout dell’etichetta Planet score, che si sta testando in oltre 120 retailer, inclusi alcuni discount come Lidl, è simile al Nutriscore ma i parametri presi in considerazione sono più attinenti all’impatto green del modo di produrre. Naturalmente non (ancora), di quello di distribuire.

Mariangela Latella

maralate@gmail.com

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