Il 20% dei vigneti italiani è bio, ma solo il 7% del vino prodotto viene certificato

Vino Bio

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A fronte di un vigneto italiano coltivato con metodo biologico la produzione vale meno della metà, il 7%. E se si parla di consumi, incide per l’1,2% dei volumi (che significa 8 milioni di litri) e il 2% dei valori delle vendite complessive di vino (45 milioni di euro) nella grande distribuzione e retail italiana. Dati che fanno riflettere per due motivi: prima di tutto perché il vigneto non restituisce quanto ci si aspetterebbe in termini di produzione, dimostrando una notevole discrepanza. In secondo luogo, sorprende che in una fase storica in cui l’attenzione all’ambiente e al benessere è sempre più diffusa, i consumatori in realtà nella scelta di fronte allo scaffale non mostrino una propensione ad acquistare vini certificati biologici.

Lamberto Frescobaldi, presidente di Unione italiana vini, nel corso di un intervento all’inaugurazione dell’anno accademico a Firenze, dell’Accademia della vite e del vino, ha sottolineato che sebbene il settore vitivinicolo abbia visto un notevole aumento degli investimenti nel biologico negli ultimi 20 anni, il consumo effettivo di vino biologico rimane molto basso.  Oggi sono coltivati a bio oltre 130.000 ettari, il 20% del totale Italia, ma solo il 7% del vino prodotto e l’1% delle vendite totali sono vini biologici. Questa discrepanza tra il vigneto biologico e la produzione effettiva è dovuta al fatto che molti vini ottenuti da uve biologiche non sono commercializzati come biologici.

Questo perché durante il processo di vinificazione, circa il 50% del vino biologico non viene etichettato come tale, influenzando negativamente la quantità di vino biologico disponibile sul mercato. “Evidentemente per scelta commerciale è preferibile vendere il prodotto come non biologico. In estrema sintesi, solo l’1% dei calici di vino tricolore consumati in Italia e nel mondo è certificato biologico. È un mercato di super nicchia”, ha ammesso Frescobaldi.

Ci sono diverse ragioni dietro a questa situazione: da un lato, le normative rigide possono rendere difficile l’ottenimento della certificazione biologica e, dall’altro, c’è una percezione da parte dei consumatori che il termine “biologico” possa non essere così attraente come in passato. Inoltre, c’è un’aspettativa generale che tutti i prodotti debbano essere rispettosi dell’ambiente, rendendo meno distintivo il marchio biologico.

Ma dietro al fatto che molti viticoltori non rivendichino la coltivazione biologica in etichetta c’è anche un motivo economico.  Lo ha sottolineato Riccardo Cotarella di Assoenologi: C’è maggiore interesse al biologico a livello di vigneto rispetto al consumo perché chi coltiva con metodo bio prende il contributo pubblico che è sui 700 euro a ettaro, un contribuito a fondo perduto di certo utile”. E quindi apporre il bollino sulla bottiglia diventa secondario per alcuni produttori, ma evidentemente anche per chi compra.

Secondo Cottarella, nonostante i rischi e le sfide legate alla produzione biologica, è lodevole l’impegno di coloro che si dedicano a questa pratica con passione e dedizione. Tuttavia, emerge che la certificazione biologica potrebbe non essere così determinante come si potrebbe pensare per i consumatori. Ci sono ancora molti produttori che scelgono di non rivendicare la certificazione, poiché sembra che non influenzi significativamente le decisioni d’acquisto dei consumatori.

Infine, Frescobaldi ha sottolineato l’importanza della diversità nel settore vitivinicolo, con le sue molteplici sfaccettature e varietà di terroir. Questa diversità è considerata un punto di forza, poiché consente ai produttori di esprimersi in modo unico e ai consumatori di avere più opzioni tra cui scegliere. In definitiva, la varietà e l’autenticità nel settore del vino sono viste come elementi chiave per il successo del settore, mentre la certificazione biologica potrebbe non essere l’unica via percorribile.

Fonte: La Repubblica

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