Tra le novità previste dal Regolamento UE 848 sul biologico, un punto sarà cruciale per i piccoli produttori che ambiscono alla certificazione, ma a cui non sono mai riusciti ad accedere: unendosi in raggruppamenti produttivi potranno finalmente farlo.
“I costi legati al processo di certificazione, infatti, sono piuttosto elevati”, ci spiega Fabio Chessa di ANABIO, responsabile politiche agroindustriale e biologico CIA – Agricoltori italiani. “Il Regolamento UE – aggiunge – cerca di venire incontro anche a questa esigenza e, per una realtà frammentata come quella italiana, si tratta di un provvedimento importante”.
Anche ad ANABIO sono convinti che il Regolamento comunitario “avrà bisogno di essere applicato bene” e già la legge sul biologico in discussione al Parlamento prevede questa possibilità di certificazione. Ma i decreti ministeriali, il cui obiettivo è proprio quello di rendere effettivamente applicabile il Regolamento, dovranno chiarire se i piccoli produttori dovranno ad esempio costituirsi in reti di impresa o se saranno previste diverse modalità di consorzio.
“Penso che nel caso di operatori che già aderiscono a cooperative di conferimento dei prodotti, la cooperativa stessa fungerà da catalizzatore per avviare la certificazione di gruppo: un passaggio auspicabile perché così i produttori non dovranno occuparsi di altri adempimenti – ipotizza Chessa -. Di fatto, la cooperativa, amplierà le proprie funzioni anche a questa nuova attività legata alla certificazione a beneficio dei produttori aderenti che quindi non dovranno occuparsi delle procedure necessarie per ottenere la certificazione che – auspica – sarà comunque semplificata per i piccoli produttori”.
Sarà importante, infatti, anche che chi intende certificare il proprio prodotto, esegua i dovuti controlli. Insomma, è necessario un passaggio normativo, soprattutto in considerazione del fatto che il traguardo che l’Italia si è data è di arrivare al 25% di terreni dedicati al biologico entro il 2027: un obiettivo tutto sommato vicino, che tuttavia vede l’Italia in una posizione favorevole rispetto alla media dei Paesi europei, dato che parte dal 16% invece che dall’8% (vedi news).
Di fatto, ciò che fino ad ora ha bloccato i piccoli produttori dal richiedere la certificazione sono stati i costi legati sia all’iter in sé piuttosto che alla burocrazia, che è pressoché la medesima richiesta ai grandi: insomma, i costi cambiano poco per aziende con 50 ettari o con un ettaro a disposizione.
“Anche noi, sia come Confederazione sia come associazione nazionale interna alla nostra Confederazione, facciamo periodicamente riunioni nei tavoli di progettazione col MIPAAF per spingere l’emanazione dei decreti attuativi che consentiranno alle aziende di andare in maniera più veloce verso quel traguardo che è stato prospettato”, riferisce Chessa.
Il nuovo Regolamento mette anche le basi per un nuovo sistema di controllo e stabilisce regole per quanto riguarda l’import sul piano dei controlli e dell’armonizzazione delle regole e delle norme di importazione dai Paesi extra UE. Talvolta, infatti, le regole UE non sono del tutto conformi a quelle extra UE e ciò crea una diversità di trattamento tra i produttori.
“Gli accordi bilaterali per il commercio internazionale devono essere fatti nell’ottica di favorire questo tipo di produzione, affinché vengano salvaguardate le regole principali che sono alla base della sicurezza alimentare e della qualità”, aggiunge il responsabile di ANABIO. Mentre riflette anche sul fatto che l’Italia, benché secondo Paese al mondo per produzione biologica, è ancora a livelli molto più bassi della media europea per ciò che riguarda in consumi. Il Regolamento UE può favorire un incremento anche in questa direzione perché può supportare la commercializzazione dei prodotti coltivati secondo i metodi dell’agricoltura biologica. Talvolta, accade infatti che prodotti di fatto coltivati con metodi biologici vengano venduti come convenzionali per contenere i costi finali per il supermercato: “Chi acquista cerca il prezzo più basso ma occorre ricordare che non sempre è riconosciuto in costo adeguato al produttore che è costretto a vendere un prodotto di fatto biologico come convenzionale per rientrare con le spese”, conclude Chessa.
Chiara Affronte