Le proteste degli agricoltori ed il biologico, quali relazioni e quali conseguenze?
Innanzitutto le manifestazioni, come ampiamente e facilmente previsto, sono arrivate anche in Italia accompagnate da una forte strumentalizzazione politica che sta generando molta confusione. Accanto a richieste del tutto legittime e giustificate albergano rivendicazioni prive di senso e contenuto, queste ultime purtroppo sospinte dallo stesso governo e dalle forze politiche che lo sostengono.
La richiesta di prezzi più equi per i prodotti agricoli e di una maggiore efficienza lungo la filiera (GDO e non solo), che eviti che un prodotto agricolo venga ceduto al consumatore finale ad un prezzo 5-6 volte superiore a quello pagato al produttore, o che venga venduto sottocosto, è sacrosanta.
Il principio della “reciprocità”, ovvero che le importazioni nell’UE avvengano nel rispetto delle regole che vigono al suo interno ovvero non in dumping economico, ambientale e sociale, dovrebbe essere un imperativo volto alla salvaguardia della sostenibilità e definito non solo in ambito UE ma anche in ambito WTO e COP (Conferenza delle Parti), facendo della sostenibilità uno dei principali strumenti di sviluppo economico globale.
Non è a mio avviso giustificata la critica alla PAC, ad eccezione dell’eccessiva burocrazia, quando questa destina il 30% del bilancio della UE per circa 390 miliardi di euro (leggi tasse dei cittadini UE) ed è stata oggetto di valutazione e discussione da parte di governi, istituzioni ed organizzazioni almeno per 4-5 anni prima dell’attuale programmazione, valevole per il 2023-2027. Dove erano i governi, compresi quelli italiani, e le “sempiterne” organizzazioni professionali agricole quando si discuteva e si approvava la PAC?
Certamente non possiamo attribuire a quest’ultima la situazione economica dell’agricoltura UE o di quella italiana; l’UE non può dedicare l’intero suo bilancio all’agricoltura, come negli anni ’70 del secolo scorso, quando si impegna a diventare sempre più un’unione politica. Nel contempo, in questi ultimi anni, i governi hanno reclamato maggiori competenze in ambito nazionale ed il PSP (Piano Strategico della PAC) italiano ne è un esempio, modulando i vari investimenti, gli stessi eco-schemi e gli altri strumenti definiti in ambito UE. Oggi tutti plaudono al 4% di SAU che si può coltivare quando la maggior parte di questa era costituita da tare improduttive ovvero superfici non coltivate (fossi, capifossi, capezzagne, etc) e poi perché da un lato si vuol coltivare il 4% della SAU e dall’altro si è ottenuto di non raccogliere i prodotti delle colture secondarie in rotazione? Una vera e propria contraddizione in termini.
È poi lascia perplessi sentire, in occasione di Fieragricola a Verona, il ministro competente indirizzare le proteste verso l’UE contro la transizione ecologica fra cui la Farm to Fork ed il Green Deal, contro la carne coltivata e la farina di insetti, visto che l’UE siamo anche noi, fra l’altro uno dei Paesi fondatori!
Come possono questi aspetti aver influito sulla situazione attuale dell’agricoltura se la riduzione di fitofarmaci, fertilizzanti ed antimicrobici e le altre misure non sono ancora state attivate e sono tutte in fase di rivisitazione dopo l’uscita dalla Commissione UE di Timmermans?
La carne coltivata ad oggi in UE non si può produrre e la farina di insetti rappresenta alcune piccole esperienze produttive quando potrebbe sostituire nei mangimi una discreta quantità di fonti proteiche (soia) che l’UE importa per oltre il 90%. Fare una battaglia contro la transizione ecologica distoglie la protesta del mondo agricolo dai veri obiettivi. Il settore agricolo ha bisogno di maggiore efficienza nei processi produttivi e di minori barriere, di maggiore potere contrattuale in virtù di una vera concentrazione dell’offerta operata da OP e cooperative che commercializzino il prodotto e non si limitino alla sola fatturazione, di accordi di filiera che non siano solamente un contratto di acquisto/vendita con la tracciabilità (spesso già prevista da norme di legge esistenti) ma un approccio di filiera per arrivare al consumatore finale con un prodotto che fa della qualità l’elemento più importante. Su questo occorre che la DO sia più efficiente e sia chiamata a ridare più “valore” al prodotto. E poi, si torni alla tassazione “catastale” togliendo di mezzo l’IRPEF agricola recentemente imposta.
La nostra agricoltura ha bisogno di qualità, sia per i prodotti tipici che per le commodities, e la sostenibilità è la soluzione e non certo il problema. La sostenibilità qualifica i prodotti ed i processi, li rende più competitivi, e quando la PAC ha declinato la sostenibilità ha garantito più reddito al mondo agricolo. Il biologico ne è un esempio; ma anche i prodotti tipici e l’integrato hanno, nonostante tutto, fornito maggiori chances economiche al produttore agricolo rispetto alla produzione indistinta e generica.
L’attacco al Green Deal va anche contro l’interesse dei consumatori, quelli che con le loro tasse finanziano la PAC, che vogliono prodotti più puliti, più sani ed un ambiente migliore. Trattare i temi della sostenibilità con sufficienza non fa bene al biologico perché si crea un contesto culturale negativo; sembra che i prodotti in sintonia con l’ambiente affamino il settore agricolo quando i dati economici stanno da sempre a dimostrare il contrario. Tutti dobbiamo fare uno sforzo in questa direzione perché fare il bagno in mare a febbraio significa “ballare sul Titanic”, ma lo sforzo di ascoltare e reindirizzare la protesta verso obiettivi utili e condivisi per e nella collettività lo deve fare innanzitutto chi ha responsabilità istituzionali e di rappresentanza.
Fabrizio Piva