Questo mese la Camera discuterà in terza lettura il disegno di legge 988 (Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico) approvato il 20 maggio al Senato con 195 voti a favore, 1 astenuto e 1 contrario (Elena Cattaneo, ça va sans dire). Qualche organizzazione ‘storica’ del settore ha salutato il testo uscito dal Senato come “una straordinaria occasione per l’agricoltura italiana, già leader in Unione Europea e nel mondo per la produzione biologica”.
Sarà. Sommessamente noto che il disegno di legge fa un po’ acqua da molte parti. La prima falla (più morale che di sostanza. Ma “Le parole sono importanti!”, sbottava Nanni Moretti in Palombella Rossa, 1989) è che il testo arrivato in Senato dopo la prima approvazione da parte della Camera recitava: “La produzione biologica è attività di interesse nazionale con funzione sociale e ambientale, in quanto settore economico basato prioritariamente sulla qualità dei prodotti, sulla sicurezza alimentare, sul benessere degli animali, sullo sviluppo rurale, sulla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e sulla salvaguardia della biodiversità, che concorre alla tutela della salute e al raggiungimento degli obiettivi di riduzione dell’intensità delle emissioni di gas a effetto serra e fornisce in tale ambito appositi servizi eco-sistemici, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea e delle competenze delle Regioni e delle Province Autonome”.
C’era da inorgoglirsi e da far schiattare d’invidia gli altri 515 mila operatori europei: la Repubblica Italiana era la prima a riconoscere che il lavoro dei suoi 81 mila operatori biologici era attività d’interesse nazionale per la sua funzione sociale e ambientale (nel nostro ordinamento non è che ci fosse molto altro indicato come di interesse nazionale).
Dopo sette emendamenti fotocopia (distinti, ma dettati dallo stesso palazzo rinascimentale nel cuore di Roma e del tutto identici nella formulazione) che 13 senatori si sono prestati a firmare, la Commissione Agricoltura ha cancellato d’un botto il riconoscimento di attività d’interesse nazionale con funzione sociale e ambientale, derubricando il settore biologico a semplice metodo produttivo.
Per i curiosi, i firmatari dell’emendamento sono stati i PD Taricco e Caterina Biti, i leghisti Bergesio, Vallardi, Centinaio e Sbrana, il renziano Magorno, il fratello d’Italia La Pietra, gli autonomisti Durnwalder, Steger, Unterberger e Laniece e infine l’azzurro Battistoni (che, scherzi della vita, dal 25 febbraio 2021 si è trovato sottosegretario di Stato per le Politiche agricole alimentari e forestali, con delega proprio all’agricoltura biologica cui aveva disconosciuto il carattere d’interesse nazionale).
In ogni caso, fine dell’invidia degli altri 515 mila operatori biologici europei per l’interesse nazionale.
L’articolo 6 introduce il “marchio biologico italiano per caratterizzare i prodotti biologici ottenuti da materia prima italiana contraddistinti dall’indicazione Biologico Italiano”(lo specifico logo dovrebbe essere individuato in un concorso di idee).
Qualche deputato (è la Camera ad aver previsto il marchio), magari, ha gonfiato l’italico petto, congratulandosi con se stesso per l’idea geniale del marchio nazionale, che non era sino allora balenata in nessun altro Paese europeo: non eravamo soltanto popolo di santi, poeti e navigatori, ma anche di legislatori più acuti e brillanti degli altri!
Più che del geniaccio e dell’ingegno italiano, però, si tratta di troppe lezioni saltate al primo anno di giurisprudenza. A Istituzioni di Diritto Pubblico, infatti, s’impara che c’è il diritto dell’Unione europea e che esso disciplina il mercato interno, vietando misure distorsive della concorrenza e aiuti di Stato in grado di favorirle. S’impara anche che, quanto alle materie armonizzate da regolamenti europei, gli Stati membri non possono adottare a capocchia disposizioni nazionali, ma solo laddove lo autorizzi il diritto dell’Unione.
Ebbene, “l’ammissibilità di marchi collettivi di natura pubblica è stata contestata in questi anni dalla Commissione europea e dalla stessa Corte di Giustizia, laddove la loro utilizzazione risulti riservata alle sole imprese operanti in un territorio determinato, con conseguente ostacolo alla libera concorrenza tra imprese” (INEA, “Studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale da utilizzare nell’etichettatura, presentazione e pubblicità di prodotti biologici”, 2009, studio promosso e finanziato dal MiPAAF nell’ambito del Piano d’Azione nazionale per l’agricoltura biologica).
“L’opinione più volte espressa dagli uffici della DG VI sottolinea l’illegittimità, per contrasto con le regole del commercio tra gli Stati membri, di qualsiasi norma nazionale che, al di fuori delle tassative ipotesi previste dal Regolamento CE 510/06 relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari… introduca segni identificativi della sola origine territoriale, prescindenti da una documentata rilevabilità di precipue qualità o caratteristiche del prodotto, inteso nella sua materialità” (ivi).
Si legge ancora: “Il sostegno pubblico a un eventuale marchio collettivo nazionale i cui requisiti avessero tra gli effetti la limitazione della concessione in funzione dell’origine della materia prima o della provenienza delle aziende di produzione, trasformazione e commercializzazione configurerebbe una violazione della normativa in materia di concorrenza, in quanto il marchio sarebbe suscettibile di favorire indebitamente i prodotti nazionali a scapito dei prodotti provenienti da altri Stati membri: giurisprudenza costante dichiara l’illegittimità di qualsiasi norma nazionale che introduca segni identificativi della sola origine territoriale, indipendentemente da una riscontrata diversità in ordine alle qualità materiali del prodotto, in quanto in contrasto con le regole del libero commercio tra Stati membri” (ivi).
Un marchio nazionale di proprietà del Ministero che intenda promuovere i prodotti biologici ottenuti da materia prima nazionale italiana non potrà mai ricevere l’assenso di Bruxelles. Per evitare canzonature dagli altri Stati membri (e per tenere indenne il responsabile del procedimento dagli strali della Corte dei Conti), è opportuno che il MIPAAF eviti l’assunzione del pur minimo costo per il concorso d’idee e la successiva registrazione di un marchio inutilizzabile.
Il veleno sta, però, nell’articolo 5, che istituisce il Tavolo tecnico per la produzione biologica. Il tavolo sarà chiamato a delineare gli indirizzi e le priorità per il Piano d’Azione, a esprimere pareri sui provvedimenti concernenti la produzione biologica a livello nazionale e dell’Unione Europea, a proporre gli interventi per l’indirizzo e l’organizzazione delle attività di promozione dei prodotti biologici, a individuare le strategie d’azione per favorire la conversione delle aziende. A comporre il tavolo (un tavolone) sono tre rappresentanti del MIPAAF, uno del ministero della Salute e uno di quello della Transizione Ecologica, quattro rappresentanti di Regioni e Province Autonome, uno dell’ANCI, uno della cooperazione agricola, quattro delle organizzazioni agricole a vocazione generale, uno per ciascuna associazione maggiormente rappresentativa nell’ambito della produzione biologica, uno dell’associazione più rappresentativa in ambito biodinamico, due delle associazioni dei produttori di mezzi tecnici, tre delle associazioni dei consumatori, tre della ricerca pubblica (uno nominato dall’ISPRA e uno dal CREA), tre dei distretti biologici e tre degli organismi di controllo.
Le tre principali organizzazioni agricole a vocazione generale italiane, da ultimo, tramite la loro organizzazione europea e assieme a quella della cooperazione agricola, hanno esercitato forti pressioni per affossare la strategia Farm to Fork (non condividendo l’obiettivo di tagliare del 50% pesticidi e antibiotici, del 20% i fertilizzanti né la spinta all’agricoltura biologica per portarla al 25% della superficie agricola europea entro il 2030, spingendo invece per i ‘nuovi OGM’, chiedendo premialità per l’agricoltura intensiva e industriale e per modelli agricoli con impatto negativo sulla biodiversità), dimostrando di essere non organizzazioni agricole e cooperative a vocazione generale, ma organizzazioni agricole e cooperative a vocazione intensiva e industriale, contrarie allo sviluppo del biologico.
Che siano chiamate loro a delineare indirizzi e priorità per il Piano d’Azione, a far proposte sull’organizzazione della promozione e a indicare come favorire la conversione al biologico è quantomeno bizzarro.
Tocca poi a un rappresentante per ciascuna associazione maggiormente rappresentativa nell’ambito della produzione biologica. Quante saranno? Una? Due? Cinque? Una per ciascuna Regione e Provincia autonoma? Saranno tenute in considerazione anche le associazioni/sezioni biologiche istituite delle organizzazioni a vocazione intensiva e industriale contrarie allo sviluppo del biologico, donando così loro una doppia rappresentanza? La rappresentatività si valuterà in ambito nazionale, regionale o locale? Come si determinerà? Per entità di operatori sugli operatori totali? Per entità di superficie sulla superficie totale? Per entità di fatturato sul fatturato totale? (e chi determina il fatturato totale?) Ci si baserà sulle autodichiarazioni dell’organizzazione?
Visti i compiti molto politici di questo tavolo tecnico, pare fondamentale l’eliminazione di ogni vaghezza: è bene che i criteri siano indicati dal legislatore e non lasciati a un capo dipartimento o a un direttore generale.
Veniamo alle Organizzazioni interprofessionali nella filiera biologica, “costituite per iniziativa delle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale nei settori della produzione, della trasformazione e del commercio dei prodotti biologici”. Anche qui i criteri per valutare la rappresentatività sono particolarmente delicati, non fosse altro perché tali Organizzazioni interprofessionali sono legittimate a richiedere al MIPAAF l’imposizione di regole e contributi obbligatori a carico di tutte le imprese biologiche, anche di quelle cui mai è passato per la testa di aderire all’organizzazione e che non lo farebbero manco sotto tortura.
Quel che sembra evidente è che le organizzazioni a vocazione intensiva e industriale han presidiato l’iter del DDL in modo efficace e idoneo a garantire loro uno spazio nuovo, assai ampio e sostanzialmente ingiustificato. Staremo a vedere se si tratterà davvero di una straordinaria occasione per l’agricoltura biologica italiana o se invece non la si stia consegnando ben impacchettata nelle mani di chi a Bruxelles ha scoperto le carte e mostrato da che parte sta.
Dato che con queste considerazioni non mi son fatto abbastanza nemici, aggiungo di trovare vagamente bizzarra anche la presenza di ben tre rappresentanti degli organismi di controllo (che ritengo fondamentali fornitori di servizi, ma pur sempre fornitori di servizi) in un tavolo che, ancorché denominato tecnico, è assolutamente politico.
P.S. Queste considerazioni sono espresse a titolo strettamente personale, non sono state discusse nell’ambito delle organizzazioni in cui opero e, pertanto, non le coinvolgono.
Roberto Pinton
La Legge sul Bio alla Camera: Peccato faccia acqua da tutte le parti
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Questo mese la Camera discuterà in terza lettura il disegno di legge 988 (Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico) approvato il 20 maggio al Senato con 195 voti a favore, 1 astenuto e 1 contrario (Elena Cattaneo, ça va sans dire). Qualche organizzazione ‘storica’ del settore ha salutato il testo uscito dal Senato come “una straordinaria occasione per l’agricoltura italiana, già leader in Unione Europea e nel mondo per la produzione biologica”.
Sarà. Sommessamente noto che il disegno di legge fa un po’ acqua da molte parti. La prima falla (più morale che di sostanza. Ma “Le parole sono importanti!”, sbottava Nanni Moretti in Palombella Rossa, 1989) è che il testo arrivato in Senato dopo la prima approvazione da parte della Camera recitava: “La produzione biologica è attività di interesse nazionale con funzione sociale e ambientale, in quanto settore economico basato prioritariamente sulla qualità dei prodotti, sulla sicurezza alimentare, sul benessere degli animali, sullo sviluppo rurale, sulla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e sulla salvaguardia della biodiversità, che concorre alla tutela della salute e al raggiungimento degli obiettivi di riduzione dell’intensità delle emissioni di gas a effetto serra e fornisce in tale ambito appositi servizi eco-sistemici, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea e delle competenze delle Regioni e delle Province Autonome”.
C’era da inorgoglirsi e da far schiattare d’invidia gli altri 515 mila operatori europei: la Repubblica Italiana era la prima a riconoscere che il lavoro dei suoi 81 mila operatori biologici era attività d’interesse nazionale per la sua funzione sociale e ambientale (nel nostro ordinamento non è che ci fosse molto altro indicato come di interesse nazionale).
Dopo sette emendamenti fotocopia (distinti, ma dettati dallo stesso palazzo rinascimentale nel cuore di Roma e del tutto identici nella formulazione) che 13 senatori si sono prestati a firmare, la Commissione Agricoltura ha cancellato d’un botto il riconoscimento di attività d’interesse nazionale con funzione sociale e ambientale, derubricando il settore biologico a semplice metodo produttivo.
Per i curiosi, i firmatari dell’emendamento sono stati i PD Taricco e Caterina Biti, i leghisti Bergesio, Vallardi, Centinaio e Sbrana, il renziano Magorno, il fratello d’Italia La Pietra, gli autonomisti Durnwalder, Steger, Unterberger e Laniece e infine l’azzurro Battistoni (che, scherzi della vita, dal 25 febbraio 2021 si è trovato sottosegretario di Stato per le Politiche agricole alimentari e forestali, con delega proprio all’agricoltura biologica cui aveva disconosciuto il carattere d’interesse nazionale).
In ogni caso, fine dell’invidia degli altri 515 mila operatori biologici europei per l’interesse nazionale.
L’articolo 6 introduce il “marchio biologico italiano per caratterizzare i prodotti biologici ottenuti da materia prima italiana contraddistinti dall’indicazione Biologico Italiano”(lo specifico logo dovrebbe essere individuato in un concorso di idee).
Qualche deputato (è la Camera ad aver previsto il marchio), magari, ha gonfiato l’italico petto, congratulandosi con se stesso per l’idea geniale del marchio nazionale, che non era sino allora balenata in nessun altro Paese europeo: non eravamo soltanto popolo di santi, poeti e navigatori, ma anche di legislatori più acuti e brillanti degli altri!
Più che del geniaccio e dell’ingegno italiano, però, si tratta di troppe lezioni saltate al primo anno di giurisprudenza. A Istituzioni di Diritto Pubblico, infatti, s’impara che c’è il diritto dell’Unione europea e che esso disciplina il mercato interno, vietando misure distorsive della concorrenza e aiuti di Stato in grado di favorirle. S’impara anche che, quanto alle materie armonizzate da regolamenti europei, gli Stati membri non possono adottare a capocchia disposizioni nazionali, ma solo laddove lo autorizzi il diritto dell’Unione.
Ebbene, “l’ammissibilità di marchi collettivi di natura pubblica è stata contestata in questi anni dalla Commissione europea e dalla stessa Corte di Giustizia, laddove la loro utilizzazione risulti riservata alle sole imprese operanti in un territorio determinato, con conseguente ostacolo alla libera concorrenza tra imprese” (INEA, “Studio di fattibilità per l’introduzione di un logo nazionale da utilizzare nell’etichettatura, presentazione e pubblicità di prodotti biologici”, 2009, studio promosso e finanziato dal MiPAAF nell’ambito del Piano d’Azione nazionale per l’agricoltura biologica).
“L’opinione più volte espressa dagli uffici della DG VI sottolinea l’illegittimità, per contrasto con le regole del commercio tra gli Stati membri, di qualsiasi norma nazionale che, al di fuori delle tassative ipotesi previste dal Regolamento CE 510/06 relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari… introduca segni identificativi della sola origine territoriale, prescindenti da una documentata rilevabilità di precipue qualità o caratteristiche del prodotto, inteso nella sua materialità” (ivi).
Si legge ancora: “Il sostegno pubblico a un eventuale marchio collettivo nazionale i cui requisiti avessero tra gli effetti la limitazione della concessione in funzione dell’origine della materia prima o della provenienza delle aziende di produzione, trasformazione e commercializzazione configurerebbe una violazione della normativa in materia di concorrenza, in quanto il marchio sarebbe suscettibile di favorire indebitamente i prodotti nazionali a scapito dei prodotti provenienti da altri Stati membri: giurisprudenza costante dichiara l’illegittimità di qualsiasi norma nazionale che introduca segni identificativi della sola origine territoriale, indipendentemente da una riscontrata diversità in ordine alle qualità materiali del prodotto, in quanto in contrasto con le regole del libero commercio tra Stati membri” (ivi).
Un marchio nazionale di proprietà del Ministero che intenda promuovere i prodotti biologici ottenuti da materia prima nazionale italiana non potrà mai ricevere l’assenso di Bruxelles. Per evitare canzonature dagli altri Stati membri (e per tenere indenne il responsabile del procedimento dagli strali della Corte dei Conti), è opportuno che il MIPAAF eviti l’assunzione del pur minimo costo per il concorso d’idee e la successiva registrazione di un marchio inutilizzabile.
Il veleno sta, però, nell’articolo 5, che istituisce il Tavolo tecnico per la produzione biologica. Il tavolo sarà chiamato a delineare gli indirizzi e le priorità per il Piano d’Azione, a esprimere pareri sui provvedimenti concernenti la produzione biologica a livello nazionale e dell’Unione Europea, a proporre gli interventi per l’indirizzo e l’organizzazione delle attività di promozione dei prodotti biologici, a individuare le strategie d’azione per favorire la conversione delle aziende. A comporre il tavolo (un tavolone) sono tre rappresentanti del MIPAAF, uno del ministero della Salute e uno di quello della Transizione Ecologica, quattro rappresentanti di Regioni e Province Autonome, uno dell’ANCI, uno della cooperazione agricola, quattro delle organizzazioni agricole a vocazione generale, uno per ciascuna associazione maggiormente rappresentativa nell’ambito della produzione biologica, uno dell’associazione più rappresentativa in ambito biodinamico, due delle associazioni dei produttori di mezzi tecnici, tre delle associazioni dei consumatori, tre della ricerca pubblica (uno nominato dall’ISPRA e uno dal CREA), tre dei distretti biologici e tre degli organismi di controllo.
Le tre principali organizzazioni agricole a vocazione generale italiane, da ultimo, tramite la loro organizzazione europea e assieme a quella della cooperazione agricola, hanno esercitato forti pressioni per affossare la strategia Farm to Fork (non condividendo l’obiettivo di tagliare del 50% pesticidi e antibiotici, del 20% i fertilizzanti né la spinta all’agricoltura biologica per portarla al 25% della superficie agricola europea entro il 2030, spingendo invece per i ‘nuovi OGM’, chiedendo premialità per l’agricoltura intensiva e industriale e per modelli agricoli con impatto negativo sulla biodiversità), dimostrando di essere non organizzazioni agricole e cooperative a vocazione generale, ma organizzazioni agricole e cooperative a vocazione intensiva e industriale, contrarie allo sviluppo del biologico.
Che siano chiamate loro a delineare indirizzi e priorità per il Piano d’Azione, a far proposte sull’organizzazione della promozione e a indicare come favorire la conversione al biologico è quantomeno bizzarro.
Tocca poi a un rappresentante per ciascuna associazione maggiormente rappresentativa nell’ambito della produzione biologica. Quante saranno? Una? Due? Cinque? Una per ciascuna Regione e Provincia autonoma? Saranno tenute in considerazione anche le associazioni/sezioni biologiche istituite delle organizzazioni a vocazione intensiva e industriale contrarie allo sviluppo del biologico, donando così loro una doppia rappresentanza? La rappresentatività si valuterà in ambito nazionale, regionale o locale? Come si determinerà? Per entità di operatori sugli operatori totali? Per entità di superficie sulla superficie totale? Per entità di fatturato sul fatturato totale? (e chi determina il fatturato totale?) Ci si baserà sulle autodichiarazioni dell’organizzazione?
Visti i compiti molto politici di questo tavolo tecnico, pare fondamentale l’eliminazione di ogni vaghezza: è bene che i criteri siano indicati dal legislatore e non lasciati a un capo dipartimento o a un direttore generale.
Veniamo alle Organizzazioni interprofessionali nella filiera biologica, “costituite per iniziativa delle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale nei settori della produzione, della trasformazione e del commercio dei prodotti biologici”. Anche qui i criteri per valutare la rappresentatività sono particolarmente delicati, non fosse altro perché tali Organizzazioni interprofessionali sono legittimate a richiedere al MIPAAF l’imposizione di regole e contributi obbligatori a carico di tutte le imprese biologiche, anche di quelle cui mai è passato per la testa di aderire all’organizzazione e che non lo farebbero manco sotto tortura.
Quel che sembra evidente è che le organizzazioni a vocazione intensiva e industriale han presidiato l’iter del DDL in modo efficace e idoneo a garantire loro uno spazio nuovo, assai ampio e sostanzialmente ingiustificato. Staremo a vedere se si tratterà davvero di una straordinaria occasione per l’agricoltura biologica italiana o se invece non la si stia consegnando ben impacchettata nelle mani di chi a Bruxelles ha scoperto le carte e mostrato da che parte sta.
Dato che con queste considerazioni non mi son fatto abbastanza nemici, aggiungo di trovare vagamente bizzarra anche la presenza di ben tre rappresentanti degli organismi di controllo (che ritengo fondamentali fornitori di servizi, ma pur sempre fornitori di servizi) in un tavolo che, ancorché denominato tecnico, è assolutamente politico.
P.S. Queste considerazioni sono espresse a titolo strettamente personale, non sono state discusse nell’ambito delle organizzazioni in cui opero e, pertanto, non le coinvolgono.
Roberto Pinton
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