Già a fine dello scorso febbraio eravamo intervenuti sull’interprofessione mettendo in evidenza alcune debolezze della Legge 23 e, soprattutto, avvertendo quali scelte evitare. In questa riflessione vorremmo approfondire alcuni rischi che derivano dalla cattiva formulazione con cui la Legge stessa ha trattato il tema dell’interprofessione.
All’art. 14, in cui vengono dettagliati i requisiti che deve avere un’organizzazione interprofessionale e gli obiettivi che la stessa si deve porre, emerge abbastanza chiaramente che tale organizzazione ha, o dovrebbe avere, come scopo principale quello di redigere contratti-tipo. Per questo e per altri scopi elencati nella Legge può costituire fondi ed imporre regole e contributi finanziari obbligatori per tutte le imprese aderenti e, per un periodo limitato, anche ad imprese non aderenti, previa decisione del Ministero (MASAF). All’art. 15, però, la stessa Legge prevede che le organizzazioni di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale possono stipulare, in nome e per conto delle loro imprese, accordi-quadro aventi ad oggetto la disciplina dei contratti di cessione di prodotti biologici.
L’art. 17, infine, richiama i requisiti, le modalità di riconoscimento e le finalità che devono avere le OP (Organizzazioni dei Produttori) biologiche quali soggetti detentori ed aggregatori della produzione. Le OP dovrebbero avere un ruolo importante nell’ambito della produzione ma spesso, almeno nei settori convenzionali, si sono limitate ad emettere fatture senza assumere la responsabilità della commercializzazione e quindi della vera “concentrazione” dell’offerta. Anche in questo caso la mancanza di chiarezza porta a ritenere che la rappresentanza “politica” delle organizzazioni a vocazione generale e nazionali soffochino il ruolo delle OP che hanno responsabilità sul prodotto, ovvero il primo “oggetto” di interesse di un’organizzazione interprofessionale.