Chi rappresenta il Bio si impegni di più in una rappresentanza “di mercato” e meno in una “di sindacato”.

Fabrizio Piva

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Gli spunti emersi dal webinar “La catena del valore bio e convenzionale a confronto, quali azioni per il rilancio?”, organizzata lo scorso 19 aprile da Greenplanet con il supporto di Asso.Cert.bio, sono stati parecchi ed utili per immaginare come riportare il bio al centro dell’attenzione del mercato e del consumatore.

L’analisi economica di Riccardo Meo, di ISMEA, ha posto in evidenza come nell’ultimo biennio i prezzi delle materie prime biologiche abbiano subito una riduzione il cui trend non è dissimile dai prezzi delle analoghe materie prime convenzionali. Tale fluttuazione è totalmente influenzata dalle condizioni economiche delle materie prime convenzionali e testimonia come in questi anni non si sia creato un mercato “dedicato” al biologico; questo “strabismo” di mercato non consente di dare il giusto peso e valore ai fattori della produzione biologica riducendone la redditività. Ciò è palese nel momento in cui si nota una riduzione del gap di prezzo fra bio e convenzionale, avvicinandolo sempre più a quest’ultimo, ed è evidente anche dall’analisi condotta sempre da Ismea sull’acquisto di alimentari bio nel 2023 da parte delle famiglie in cui la crescita monetaria dei consumi bio è aumentata meno di quella dei prodotti convenzionali mentre i volumi hanno registrato un andamento opposto. Se da una parte questo ha determinato una minore spinta inflattiva del bio, dall’altra ha portato ad una riduzione della redditività. Andando poi ad analizzare la distribuzione del valore lungo la filiera, i prezzi allo scaffale sono aumentati anche nel 2023 per quasi tutti i prodotti, ed in particolare per quelli confezionati, con un differenziale importante rispetto agli analoghi convenzionali e nonostante molte materie prime siano state caratterizzate da un trend ribassista. Lungo la catena del valore la fase agricola continua a detenere una quota intorno al 30% del valore economico complessivo anche se sarebbe molto più interessante poter analizzare quanta quota di marginalità riesce a trattenere ogni singola fase per capire l’efficienza della filiera e di ogni sua singola fase così da poter ridurre inefficienze e sprechi.

Come riportare il biologico alla ribalta e all’attenzione del consumatore? Nel webinar ne hanno discusso Carola Gullino della Gullino srl, Davide Pierleoni in rappresentanza di Asso.Cert.bio, ed il sottoscritto con la moderazione di Chiara Brandi. È emerso con forza che occorre puntare molto di più sui valori del biologico e trasmetterli al mercato e all’intera collettività perché il consumo di prodotti bio non è solo una scelta di consumo ma piuttosto la scelta di un cittadino consapevole. Da troppo tempo l’incidenza dei consumi bio non si schioda dal 3,6-3,9% e si confonde nel “mare magnum” della sostenibilità in cui tutto sembra essere sostenibile ma nessun prodotto può vantare un approccio “olistico” come per il biologico. Molti approcci sostenibili sembrano più ispirati a strategie di marketing che ad una effettiva volontà di contribuire a mitigare il cambiamento climatico e garantire una sostenibilità complessiva; non da ultimo la direttiva sulla rendicontazione delle azioni sostenibili sembra equiparare qualsiasi intervento e ridurre gli obiettivi della sostenibilità alla loro rendicontazione. Il biologico deve tornare ad essere l’apripista della sostenibilità e non un semplice gregario.

È necessario spingere sulla domanda tornando a comunicare i valori del biologico, essere consapevoli che la certificazione è valore ed è un asset strategico di garanzia e non un semplice costo o un inutile orpello burocratico. Le norme nazionali devono semplificare e non complicare il quadro regolatorio comunitario con il risultato di aumentare adempimenti burocratici e costi di produzione connessi. Occorre che la “narrazione” sull’agricoltura più in generale presenti la transizione ecologica come la soluzione dei propri problemi e non un problema di natura ideologica come spesso lo sentiamo affermare dai responsabili della nostra politica agraria, Ministro in primis. Il settore bio deve recuperare la “freschezza” dei suoi albori, essere aperto all’innovazione, alla ricerca ed alla sperimentazione; non deve diventare il settore dei “no” ma, piuttosto, come da sempre è stato, il luogo in cui si sperimentano le tecniche, sempre più sostenibili, applicate poi con successo anche nei settori produttivi convenzionali.

L’obiettivo del 25% della SAU bio non è sufficiente a garantire la crescita del settore, lo abbiamo visto in questi ultimi anni in cui la domanda è stata stagnante ed un’eventuale crescita di produzione potrebbe far diminuire i prezzi dei prodotti biologici, rendendo ancor meno redditizio impegnarsi nella loro produzione o trasformandolo in una sorta di “rendita fondiaria”. Il rischio è che, come per il vino, il 22% della superficie a vite sia biologica, lo sia solamente il 6% delle bottiglie ed i consumi siano intorno all’1-2%. Per questo è inderogabile spingere sui consumi e far sì che la distribuzione investa sul biologico con approcci dedicati e nuove referenze.

Chi ritiene di rappresentare il biologico ascolti gli operatori, si confronti con essi e si adoperi per evitare che il settore torni ad essere “di nicchia”; si impegni maggiormente in una rappresentanza “di mercato” e meno in una “di sindacato”.

Fabrizio Piva

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