Alce Nero: “Il bio è futuro ed equilibrio durevole e dinamico”

Presentazione Bilancio sostenibilità Alce Nero

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Primo Bilancio di sostenibilità per Alce Nero che dal 1978 mette insieme agricoltori e trasformatori biologici e che per la prima volta ha deciso di mettere nero su bianco la direzione e l’impegno sul piano della sostenibilità. Perché essere realmente sostenibili significa “non fare greenwashing, non fare filantropia”, ma cercare un “equilibrio dinamico e durevole”. Lo dice senza mezzi termini Erika Marrone, direttrice Qualità, ricerca & sviluppo, filiere di Alce Nero, durante il convegno Biologico è sostenibile? che si è tenuto a Bologna venerdì 27 maggio.

Del resto, come scandisce Arturo Santini, presidente, “Alce Nero è bio dal ’78” e nei primi anni ’90 ha cominciato a occuparsi di frutta biologica, quando ancora si parlava di “agricoltura a basso impatto ambientale”. La linea dell’azienda è chiara: “Il bio non è ritorno al passato ma è pensiero sul futuro; oggi non si può parlare di sostenibilità senza parlare di biologico”, aggiunge Santini. Fondamentale, poi, per il presidente di Alce Nero, rispettare la vocazionalità dei territori, anche recuperando terreni marginali, in modo, oltre tutto, da dare la possibilità di ripopolare zone diventate deserte: è così che la sostenibilità assume anche un valore sociale.

Di certo la priorità per un’agricoltura che sia effettivamente sostenibile è quella di contrastare l’emergenza ambientale e Alce Nero, in quanto multifiliera del bio, ha questa responsabilità, per Erika Marrone: “Oggi è necessario armonizzare gli obiettivi delle imprese con la salute collettiva perché sempre più quella dell’uomo e dell’animale sono interconnesse e il concetto stesso di multifiliera significa fare sintesi tra diversità a volte profonde, anche culturali”. Ciò che la pandemia, il cambiamento climatico e la guerra stanno mostrando con forza è la fragilità del sistema: “Abbiamo creduto per millenni di essere invulnerabili e oggi constatiamo quanto sia vero il contrario, a maggior ragione in giorni in cui si paventa addirittura lo spettro di una carestia globale.”, incalza Marrone. Di fronte alla paura che si innesca in questo meccanismo, l’unica risposta è il raggiungimento dell’equilibrio “dinamico e durevole” già citato.

Attorno ad Alce Nero girano 16mila tonnellate di prodotti bio e 77 milioni di fatturato: “Offriamo prodotti vari ed equilibrati, buoni al gusto, e cerchiamo di diffondere una certa cultura del cibo perché il consumatore deve sapere il motivo per cui i prodotti bio costano di più, ma anche che quello è il costo corretto”, scandisce la  direttrice Qualità, ricerca & sviluppo, filiere. E trova una sponda convinta in Giovanni Dinelli, professore ordinario del dipartimento di Scienze e tecnologie agro-alimentari all’Università degli studi di Bologna: “Dobbiamo ribadirlo con forza: non è troppo alto il prezzo dei prodotti di Alce Nero, ma è troppo basso il resto”. Aggiunge il docente Unibo: “La farina a 0,25 euro al kg costa meno della materia prima, non è quello il prezzo vero”. Sia Marrone che Dinelli ‘richiamano’ Syngenta e l’attacco al biologico, considerato responsabile della fame nel mondo. “Posso anche capire che Syngenta, facendo i propri interessi, possa dire cose simili, ma non è sopportabile quando la politica segue questo indirizzo – attacca Dinelli – Oggi il 95% dei prodotti proviene dall’agricoltura convenzionale e abbiamo 8-900 milioni di persone sotto la soglia minima di calorie quotidiane; poi c’è una fetta di popolazione che arriva a 2mila ma mangiando male; infine abbiamo un miliardo e mezzo di persone sovrappeso di cui circa 500mila obese: quindi su sette miliardi e mezzo di popolazione mondiale oltre tre sono malnutrite e la colpa è del bio?”. La risposta è ovviamente no, per Dinelli che aggiunge: “Quando andiamo in un supermercato dobbiamo essere consapevoli che per comprare una caloria ne sono state prodotte sette; in alcuni casi – come per una fettina di carne rossa – il rapporto è di 1 a 20: è evidente che un sistema simile non può reggere”.  Il bio, per il professore dell’Alma Mater, può essere una risposta ma se si segue il principio della vocazionalità dei territori, perché solo in questo modo si può evitare di fare ricorso ai pesticidi – siano essi chimici o naturali – o per lo meno si può ridurne l’utilizzo a poche occasioni. L’agricoltura convenzionale, al contrario, ha distrutto la biodiversità: “La chimica – che si utilizza da 60 anni – ci ha illuso che non avessimo più bisogno della biodiversità – spiega Dinelli – I romani dividevano i terreni in iugeri (mezzo ettaro, circa, ndr.) dove c’erano fossi, alberi, siepi, perché tutto era necessario: la coccinella per contrastare l’afide e quindi l’albero per avere la coccinella. Tutto si teneva assieme. Negli anni ’50 in un km quadrato c’erano almeno 20 alberi in più rispetto ad ora”. Questo ragionamento, tuttavia, non significa che si debba tornare indietro: “È evidente che non si può neanche ipotizzare di tornare ad arare col cavallo: dobbiamo sfamare il pianeta e dobbiamo farlo con l’agricoltura biologica e con la tecnologia, con sistemi che facilitino i processi, come i robottini che con un getto d’aria calda strappano le erbacce…”.

Obiettivo per Santini, presidente di Alce Nero, quindi, è di “fare sempre meglio, essere sempre più performanti e meno consumatori di energia. Oggi “l’asticella si è alzata – scandisce Massimo Monti, AD dell’azienda – ma occorre educare le persone a consumare in modo più sostenibile e anche noi non dobbiamo essere autoreferenziali, ma impegnarci a coinvolgere il consumatore”. È evidente che un’azienda debba generare profitto, ricorda Marrone, ma “deve farlo producendo impatti positivi”. E Alce Nero, in quanto attore autorevole, ha l’obbligo di evidenziare anche certi paradossi: “Noi paghiamo un ente certificatore ma in realtà dovremmo essere pagati per mettere in circolo servizi ecosistemici che portano benessere, anche psicologico, alle persone”.

Un esempio pratico di azienda che guarda al futuro?  “Abbiamo sviluppato con UNIBO un frollino resiliente, realizzato con miglio e sorgo, più resistenti ai cambiamenti climatici rispetto al mais, perché necessitano di meno acqua. Ma buono al gusto, perché questo è un fattore fondamentale”. Poi importante l’attenzione al packaging ma anche alla provenienza delle materie non locali: “In quei casi ci rivolgiamo a Fairtrade”.

Chiara Affronte

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