A SANA/Slow Wine di Bologna, che ha chiuso i battenti ieri, si è avuto modo di discutere sullo stato di salute del biologico. Molti sono stati i dottori accorsi al capezzale. Anticipiamo fin da subito che il biologico, ed è una buona notizia, sta meglio di SANA! I dati presentati negli incontri che si sono susseguiti e le analisi eseguite hanno diagnosticato che il paziente sta lentamente migliorando anche se permane uno stato di sofferenza che non gli consente di riabilitarsi fino in fondo. Con molta probabilità all’interno dello stesso organismo vi sono alcuni anticorpi che lavorano al contrario di come dovrebbero e gli altri devono fare una doppia fatica per ristabilirne le buone condizioni di salute. Rimane in uno stato di sorveglianza rafforzata.
Fuor di metafora, Nomisma certifica che il mercato interno ha superato i 6,5 miliardi di euro (+ 5,7% sul 2023) e l’export ha quasi raggiunto i 3,9 miliardi con un + 7% sul 2023; nel complesso il mercato italiano ha superato i 10,4 miliardi di euro, un dato che ci porta a concludere che si è registrato un aumento anche in volume e non solo in valore. Elemento che avevamo registrato anche durante Marca nell’ambito dei dati Nielsen, relativi alla sola DM, con un incremento in volume pari al 4,6%.
Detto questo – e non è poco rispetto alle difficoltà 2021-23 – tutti gli altri temi/problemi rimangono sul tappeto ed il mercato interno non si sblocca dal 3% dei consumi alimentari globali. La spesa pro-capite bio annua in Italia è di 66 euro quando la media UE si attesta sui 104 euro, con Germania a 191 e Francia a 176 euro, valori che dovrebbero essere alla nostra portata; da ciò è facilmente desumibile che il nostro mercato interno rimane relativamente piccolo rispetto alle potenzialità.
I medici ed i sapienti accorsi al capezzale hanno offerto le loro diagnosi fra cui origine, reciprocità, costi, prezzi, reddito, greenwashing, cambiamento climatico, sostenibilità, PAC, consumi, aggregazione, filiera, innovazione, distribuzione ma non abbiamo sentito parlare di terapie vere e proprie se non in rari casi. Qui, per ragioni di spazio, ci concentriamo solo su alcuni aspetti.
A costo di essere impopolari, i dati non fanno emergere che il biologico italiano abbia necessità di una terapia basata sul marchio nazionale, il bio nostrano veleggia sui mercati esteri ed è ben riconoscibile ed apprezzato; non si vede la ragione per cui dobbiamo caricare il sistema produttivo di ulteriori orpelli burocratici. Già ora il biologico ha un lodo europeo con la possibilità di indicare l’origine “Italia” quando tutte le materie prime agricole sono coltivate o allevate in Italia.
Il biologico nasce come movimento/settore transnazionale e ciò che ne “fa premio” è il metodo di produzione e le sue regole e non tanto l’origine. A questo argomento viene in soccorso il fatto che fin dal 1991 le importazioni da Paesi Terzi avvengono in regime di equivalenza e dal 2027 potranno avvenire solo in conformità al Reg 848 o sulla base di accordi commerciali di mutuo riconoscimento, pertanto non è corretto invocare, come fatto, la reciprocità. Siamo ben oltre con il biologico.
Altro aspetto poco trattato è stato quello della burocrazia: le regole nazionali (non conformità, sanzioni amministrative eccessive, prova della non intenzionalità a carico dell’operatore, soglia dei residui, acido fosforoso, complessità della documentazione a partire dalla notifica, banche dati farraginose, etc) eccessivamente complicate e penalizzanti stanno allontanando gli operatori dal biologico. Non sono tanto i costi della certificazione a scoraggiarne le buone intenzioni ma piuttosto gli oneri burocratici e l’atteggiamento “ostile” dell’apparato pubblico. Ne sono prova i dati presentati da Assocertbio allo scorso Biofach: nel 2024 gli operatori non aumentano rispetto al 2023, anzi i produttori esclusivi sono in calo e pochissime sono le superfici in conversione. Già oggi con quasi il 50% di superfici a prato-pascolo e foraggere, il grano tenero bio nazionale non si trova, con i prezzi schizzati ben oltre i 40 euro/q.le, così come non si trovano altre produzioni bio specializzate.
Negli incontri che si sono susseguiti a Bologna è emerso, soprattutto dal mondo cooperativo, la giusta esigenza di favorire una vera aggregazione, di fronte alla frammentazione del mondo produttivo, sulla base di filiere efficienti con una PAC che premi la realizzazione di prodotti che vanno sul mercato e non tanto una premialità basata sulla superficie con il rischio di favorire una posizione di rendita spesso basata su superfici di fatto improduttive quali pascoli e prati permanenti.
Solo filiere efficienti e che puntano a prodotti trasformati potranno garantire un maggior valore aggiunto ed una spiccata vocazione verso l’innovazione e lo sviluppo tecnologico.
Altro tema importante emerso consiste nel favorire la costituzione di OP (Organizzazioni di Produttori) dedicate al biologico con il sostegno di piani operativi simili a quanto già in vigore nell’OCM ortofrutta.
Grande assente dal confronto la Distribuzione che in Italia detiene il 64% delle vendite e quasi un prodotto su due è a marchio del distributore: se si vuole sviluppare il mercato interno è imprescindibile che la GDO riprenda ad investire sul biologico.
Ci auguriamo, per la salute del settore, che si passi dalla diagnosi alla terapia: importante è togliere di mezzo “i placebo” e usare le vere medicine.
Fabrizio Piva