Costi elevati, burocrazia farraginosa e un sistema normativo di ‘luci e ombre’ potrebbero trasformare la certificazione biologica di gruppo, introdotta dal primo gennaio 2022 dal Regolamento UE n. 848, in un progetto che rimane tale solo sulla carta.
Uno spreco legislativo se si considera l’onorevole obiettivo (uno dei tanti) di omologare la normativa certificativa per tutti gli operatori che lavorano nel quadro dell’Unione, siano essi produttori o commercializzatori a vario titolo. Lo rivela uno studio dell’Università Politecnica delle Marche svolto per il MIPAAF insieme al CIHEAM Bari, ossia il Mediterranean Agronomic Institute che ha sede nel capoluogo pugliese e ISMEA.
L’analisi condotta era incentrata sulla verifica dell’interesse nella certificazione di gruppo da parte di nove aziende o di quelle che già fanno agroalimentare bio. Tra queste, anche tre appartenenti al settore ortofrutticolo che, per paradosso, erano i gruppi più organizzati per partire (come Melinda, tra i case study analizzati) perché avevano già le caratteristiche strutturali, la commercializzazione unica richiesta, le caratteristiche dimensionali previste dalla certificazione ed una forte interdipendenza su questo settore.
“Nessuna delle nove aziende intervistate vuole fare da apripista anche se considera favorevolmente questa nuova certificazione – ha spiegato Raffaele Zanoli, professore ordinario dell’ateneo marchigiano, presso il Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e ambientali nel corso del convegno ‘Certificazione biologica di gruppo, un’opportunità per le aziende ortofrutticole’, organizzato a Macfrut dall’ente certificatore CCPB -. Il motivo, probabilmente, è tutto un sistema di luci e ombre nella normativa che fa tentennare gli imprenditori agricoli”.
Oltre ai costi elevati legati all’autoregolamentazione del gruppo che decide di farsi certificare bio, c’è anche il rischio derivato dai nuovi sistemi di controllo che vengono, adesso, lasciati in carico al gruppo stesso, con verifiche spot da enti terzi, molto minori di quelli di prima, ma che potrebbero portare alla revoca della certificazione se solo una delle aziende del gruppo non rispetti il disciplinare.
“Il rischio è tanto più elevato – ha precisato Zanoli – quanto più, allo stato dell’arte, non esiste un sistema per la condivisione delle informazioni tra le imprese aderenti agli eventuali progetti di certificazione di gruppo. Un’alternativa potrebbe essere lo scambio di PEC, ossia le email certificate. Ma è molto più farraginoso di una piattaforma costruita ad hoc che oggi non c’è. In genere i problemi delle certificazioni di gruppo ricalcano quelli delle certificazioni in generale”.
Questo aspetto, se da un lato potrebbe tradursi in ulteriori oneri burocratici per l’agricoltore, di fatto metterebbe ancora più a rischio la tenuta del sistema dei controlli. Una nota dolente che potrebbe trasformarsi in un anello debole per il Green Deal che punta, fra l’altro, sulla crescita esponenziale delle superfici coltivate a bio in tutta l’Unione, entro il 2030.
“In tutto ciò, il nuovo Regolamento n.848 non scioglie molti dei nodi tutt’ora irrisolti – ha affermato Zanoli -. Ad esempio non prevede una valutazione delle aziende che potrebbero essere più rischiose a produrre fake-bio. Poi, se la certificazione nasce anche per permettere l’aggregazione delle imprese, d’altro canto è anche un vulnus per questo stesso obiettivo dato che il mancato allineamento al disciplinare da parte di una sola azienda, comporta la revoca della certificazione a tutto il gruppo”.
Tra i vantaggi della certificazione biologica di gruppo, c’è che l’agricoltore, talvolta non scolarizzato, viene sollevato, dalla relazione con gli ispettori. Un rapporto che viene gestito direttamente dalla cooperativa a cui fa capo il gruppo certificato.
“Per capire come si sarebbe ripercossa la certificazione biologica di gruppo su una serie di piccole realtà – ha spiegato Zanoli -, abbiamo intervistato singoli produttori italiani. Abbiamo notato che la presenza di gruppi già pronti per questo tipo di certificazione, come i biodistretti, hanno un grado di interdipendenza piuttosto lasca, a differenza dell’organizzazione tramite cooperative dove il produttore conferisce in cambio di servizi. Ma qui si torna al principale ostacolo all’aggregazione in Italia legato al fatto che le aziende agricole sono restie alla commercializzazione congiunta”.
Tra i fattori disincentivanti si aggiunga che, nel quadro malmostoso delle certificazioni e dei controlli attualmente in essere e non superato nella certificazione biologica di gruppo né, in generale, dal Regolamento UE n.848, se si viene espulsi da una cooperativa perché non si rispetta il disciplinare bio, si perde anche la garanzia di mercato.
A questo si aggiungano anche una serie di tecnicismi giuridici irrisolti, come ad esempio, la definizione di personalità giuridica che richiede la certificazione biologica di gruppo. Secondo le norme europee, potrebbe andare bene, ad esempio, quella di cooperativa o di consorzio ma non quella di associazioni di produttori. “Modificare tutto questo sistema di luci ed ombre – ha dichiarato Zanoli -, potrebbe significare rimettere mano a tutta la regolamentazione europea”.
Fra le ‘luci’ citate dal professore marchigiano, ci sono l’alleggerimento burocratico per il produttore e l’allineamento del controllo interno ed esterno che porta al 100% di commercializzazione congiunta.
Tra le ombre, in un gruppo in cui ci siano sia grandi aziende che PMI, ci sarebbe l’affanno di queste ultime dato che le filiere coordinate da un capofila abbastanza grande hanno requisiti molto più rigorosi, dettati da questo, certamente più stringenti di quanto si possa permettere una piccola azienda, sia pure in linea con gli standard europei.
Mariangela Latella