Quando si parla di metodo biologico e metodo convenzionale, e del dialogo tra i due ambiti che da più parti viene auspicato, è importante anche osservare gli aspetti nutrizionali e i risvolti sulla salute dell’uno e dell’altra modalità di produzione. È ciò che chiedono i consumatori: il bio è più sano? E gli imprenditori cercano di dare risposte, benché gli input dal mondo della scienza talvolta possano creare confusione.
Enzo Spisni, professore associato al dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali all’Università di Bologna, ragiona sulla nutrizione, suo campo di indagine, e fa subito una precisazione: “Esistono due tipi di studi: quelli epidemiologici che permettono di analizzare gli effetti della dieta su una specifica corte di popolazione, confrontando le diete con le patologie che eventualmente sorgono nel corso della vita, e quelli che invece si concentrano ad osservare gli effetti sulla salute di una determinata sostanza utilizzata nell’agricoltura convenzionale”.
Spisni si dice dubbioso rispetto al primo tipo di studi rivolti all’analisi degli effetti di una alimentazione bio o non bio: “Contengono troppi bias; faccio un esempio: se osserviamo persone che mangiano biologico ma vivono quotidianamente in un’area inquinata, diventa complicato capire cosa sia più importante come possibile causa dell’insorgenza delle patologie eventualmente riscontrate che sono l’effetto che si registra.” Insomma, per il professore, “estrapolare dagli studi epidemiologici ciò che realmente succede nella popolazione, tra chi mangia bio o non bio è estremamente difficile se non addirittura impossibile”. Motivo per il quale, spiega ancora Spisni, “in letteratura troviamo studi che dimostrano che il biologico effettivamente fa bene, e, al contempo, altri che dicono il contrario, semplicemente perché analizzano parametri diversi” (a tal proposito si suggerisce di fare riferimento all’articolo A Systematic Review of Organic Versus Conventional Food Consumption: Is There a Measurable Benefit on Human Health? Vigar V, Myers S, Oliver C, Arellano J, Robinson S, Leifert C. Nutrients. 2019 Dec 18 e al commento di Di Renzo L, De Lorenzo A, Merra G, Gualtieri P. pubblicato sulla medesima rivista nel marzo 2020, ndr).
Ecco, quindi ,che per il docente dell’ateneo bolognese si rende necessario “scendere di livello e andare a studiare gli effetti dell’esposizione alle singole sostanze, magari proprio quelle che sono più utilizzate nell’agricoltura convenzionale: così facendo svaniscono tutti i dubbi”.
Il chlorpyrifos, un antiparassitario attualmente sospeso (ritirato dall’Europa nel 2020 – si può leggere l’articolo “The growing concern of chlorpyrifos exposure on human and environmental health” di Nandi e collaboratori del 2022), è uno di questi. “È uno dei principali contaminanti presenti ancora oggi nel grano, ad esempio, ma si trova in tutti i cereali: analizzando germi di grano lo si ritrova continuamente in quello convenzionale; il chlorpyrifos è un pesticida che, in tutti i modelli in cui è stato utilizzato, è risultato essere un interferente endocrino, oltre a rappresentare un fattore nell’incremento di problematiche tumorali. Quindi, sappiamo benissimo di cosa si tratta e, dato che nell’agricoltura convenzionale in certi Paesi ancora lo si usa, abbiamo dati sufficienti per affermare che fa male alla nostra salute”. La stessa cosa può essere detta con grande certezza anche per il glifosato: erbicida al centro di anni di dibattito in Europa, ma sul quale la ricerca scientifica ha già dato risposte definitive rispetto agli effetti sulla salute, a partire dagli studi compiuti dall’Istituto Ramazzini, che sta portando avanti una vera propria battaglia contro il suo utilizzo.
Per Spisni, quindi, è importante concentrarsi sui risultati di questo tipo di studi. Infatti, quelli derivanti da indagini epidemiologiche sono più “incerti e quindi attaccabili”. Il professore porta un altro esempio: “Sappiamo che l’attività sportiva previene tutte le malattie non trasmissibili; gli studi che dimostrano gli effetti benefici di chi mangia biologico, tengono conto del fatto se le popolazioni osservate facciano più o meno attività fisica?”. Probabilmente no. Stesso risultato si ottiene se si indaga sulle microplastiche, ormai presenti nell’organismo umano: “Costituiscono una devastazione ambientale, sono presenti ovunque, ne abbiamo perfino nel sangue. Possiamo certamente dire che, pur mangiando biologico, se si utilizza una dieta contaminata o si vive in una zona particolarmente esposta a microplastiche, certamente l’organismo ne risente, ma non si può distinguere esattamente il peso dell’uno e dell’altro elemento.”
Occorre, poi, ricordare che una parte non trascurabile degli studi che smentiscono gli effetti benefici dell’alimentazione biologica vengono finanziati dalle case produttrici delle stesse sostanze che sono sotti i riflettori delle ricerche, proprio “con l’obiettivo di sostenere che non c’è differenza tra il biologico e convenzionale”, spiega Spisni, che prosegue: “I Monsanto papers dovrebbero averci insegnato qualcosa (per approfondire: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/29843257/). La cosa più assurda è che questi stessi studi commissionati e sponsorizzati vengono poi presentati agli enti regolatori all’interno di “dossier” che sono alla base delle decisioni sul bloccare o no una sostanza”.
“Questa strada è stata aperta dai produttori di tabacco tanti anni fa: negli studi sponsorizzati che presentavano i produttori venivano scelti appositamente parametri poco significativi e così si concludeva di non poter affermare con certezza che il fumo fosse causa di cancro; poi le indagini si sono raffinate e oggi possiamo dichiararlo con assoluta certezza”, racconta Spisni, che spiega: “Se si cerca dove si sa di non trovare è evidente che i risultati siano falsati, perché si è deciso di indagare dove gli elementi che possono confondere sono troppi. Diverso è se si va ad osservare il fattore di rischio delle persone più esposte, ovvero gli agricoltori che utilizzano certe sostanze, per indagare quale sia la possibilità per queste persone di ammalarsi di cancro, ad esempio. Ecco: il risultato di questo tipo di ricerche evidenzia che questa popolazione esposta rischia di più rispetto al resto della popolazione non così altrettanto esposta”. C’è da dire, poi, che alcuni di questi pesticidi si sono dimostrati essere interferenti endocrini e quindi fanno danni a qualunque dose si utilizzino.
Quindi, “se la domanda è: ‘mangiare biologico riduce l’esposizione a delle sostanze che sono certamente dannose?’, la risposta è sì, è così”, scandisce il professore.
A suo avviso, si tratta di una ragione sufficiente per “convertirsi” al bio. Ma, se anche si guarda al contesto più ampio, al cambiamento climatico e alla crisi prodotta dalla guerra in Ucraina, gli allarmi per Spisni sono già chiari, così come è chiaro che, sebbene certamente anche l’agricoltura biologica debba tenere conto della produttività, per ciò che riguarda “la perdita di biodiversità sul pianeta siamo sicuramente in zona rossa. La differenza tra la biodiversità che troviamo in un campo biologico e in una monocoltura convenzionale è più che ovvia”, attacca il professore, che si sofferma anche su un altro aspetto: “La stessa pandemia da Covid-19 ci ha confermato che, non esistendo più certe specie selvatiche, i virus che possono infettare solo mammiferi, non trovandone più, finiscono per infettare l’uomo: questo altro non è che un adattamento evolutivo”.
Oltre al clorpirifos e al glifosato, per diversi altri pesticidi come pendimethalin, methyl‐bromide, mancozeb, carbaryl, alachlor e diazinon è stata evidenziata la probabile cancerogenicità (fonte: Agricultural health study – National Cancer Instiute): anche su questi, parlando di agricoltura convenzionale, sarebbe utile ragionare.
Chiara Affronte