Il dibattito aperto dalle dichiarazioni di Giuseppe Lipparini, direttore di Assosementi, e ripreso da GreenPlanet con l’intervento di Fabrizio Piva (vedi news), tocca un nodo cruciale per il futuro dell’agricoltura biologica: quello delle sementi. È un tema che merita attenzione, perché al centro non c’è solo una questione normativa, ma la coerenza di un intero modello agricolo.
Condivido l’osservazione di Lipparini: un obbligo che da anni viene disatteso nel 90% dei casi, grazie al sistema delle deroghe, è un segnale di malfunzionamento. Tuttavia, la soluzione non può essere un “tana libera tutti” che elimina l’obbligo di utilizzare sementi biologiche. Sarebbe una scorciatoia giuridica che rischia di svuotare di senso uno dei pilastri del regolamento europeo sul biologico.
Il biologico è, prima di tutto, un sistema armonizzato a livello europeo, e in altri Paesi dell’Unione il ricorso alla deroga è molto più contenuto. Non è quindi l’obbligo in sé a essere il problema, ma la mancanza di strumenti per renderlo praticabile. Servono incentivi economici per gli agricoltori, sostegno alla ricerca e alla selezione varietale dedicata al bio, e un mercato sementiero più dinamico e trasparente. Il sistema si sta muovendo in questa direzione, ma ancora in modo timido e privo di convinzione politica.
Condivido quasi integralmente anche l’analisi di Piva su GreenPlanet, ma dissento su un punto centrale: dire che la chiusura del mondo biologico all’editing genetico è “ideologica e non tecnica” è una semplificazione. Semmai è ideale — e non nel senso di astratto, ma di coerente con i principi su cui si fonda il biologico.
Il movimento bio, infatti, non è solo un insieme di pratiche agronomiche, ma un progetto culturale nato insieme ai consumatori. Non spetta solo ai produttori decidere cosa può entrare nel metodo biologico: è un patto di fiducia, basato anche su un approccio di precauzione nei confronti dell’ingegneria genetica. Chiedere di rispettarlo non significa rifiutare la scienza, ma ricordare che l’innovazione deve essere anche etica, partecipata e trasparente.
C’è poi un aspetto tecnico profondo che spesso sfugge. Albert Howard, considerato il padre dell’agricoltura “organica” nel Regno Unito e ispiratore del movimento biologico europeo, era un plant breeder. Fu proprio lui a comprendere che non basta lavorare sulla genetica per ottenere risultati agroecologici: è necessario intervenire sull’intero sistema, dalla fertilità del suolo alle interazioni tra pianta, ambiente e microbioma. La genetica non è neutra, e la selezione varietale non può essere separata dal contesto ecologico in cui la pianta vive.
Per questo l’approccio europeo al biologico sostiene l’“organic plant breeding”, in Italia chiamato bio-breeding, che lavora sulla genetica con metodi classici, adattando le varietà alle condizioni di coltivazione biologica senza ricorrere all’ingegneria genetica. È una forma di ricerca seria e scientificamente fondata, che considera la pianta come parte integrante dell’ecosistema e non come un organismo isolato da correggere.
Il dibattito sulle sementi biologiche non dovrebbe ridursi a una contrapposizione tra modernità e tradizione, ma diventare una discussione di coerenza e responsabilità. Non si tratta di chiudere la porta all’innovazione, ma di assicurarsi che ogni innovazione sia coerente con i principi e la fiducia che hanno reso il biologico una realtà solida in Europa.
Solo così il bio potrà continuare a essere non una nicchia ideologica, ma un modello agricolo, economico e culturale capace di guidare la transizione ecologica in modo credibile e partecipato.
Giovanni Battista Girolomoni
Presidente Fondazione Seminare il Futuro














