Mentre si attende il 5 luglio per sapere come la Commissione europea proporrà di regolamentare le nuove tecniche genomiche (NGT), il mondo del biologico è in subbuglio perché si teme che la norma che il Parlamento italiano ha formulato di recente possa aprire scenari pericolosi per la salute. Di certo non aiuta a far chiarezza il doppio nome assegnato in momenti diversi e da soggetti diversi agli organismi prodotti dalle nuove tecniche genomiche che si differenziano dagli OGM, organismi geneticamente modificati. Scelto dalla SIGA, Società di genetica agraria, per non rievocare con il termine “genomico” il fantasma degli OGM, il termine in realtà crea a livello di comunicazione e divulgazione una certa confusione.
ISPRA, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, cerca di fare chiarezza, in quanto organismo che dal 2018 ha il compito, trasferito dal ministero dell’Ambiente (MASE), di valutazione e supporto in materia di biotecnologie, di cui si occupa da 20 anni.
“Le NGT sono tutte quelle nuove tecniche genomiche sviluppate dopo il 2001, anno in cui è stata pubblicata dalla UE la direttiva madre, la 2001/18 – spiega Valeria Giovannelli – sotto il cui nome sono racchiuse una serie di tecniche che vanno dalle modificazioni epigenetiche, alla cisgenesi, all’editing e al transgrafting che modificano il genoma delle piante in vari modi. Si può infatti agire sul singolo nucleotide della catena del DNA o su più nucleotidi o ancora inserendo una nuova sequenza di nucleotidi”.
I geni, infatti, sono composti da sequenze nucleotidiche che codificano per le proteine. Su di esse si può intervenire operando mutazioni puntiformi, delezioni, inserzioni, inserimenti di grandezze diverse di sequenze nucleotidiche. Nella Legge n. 68 del 13 giugno 2023 si parla di editing genomico, in particolare di cisgenesi e di mutagenesi sito diretta, che comprende altre tecniche note con gli acronimi SDN 1, 2 e 3 che il più delle volte utilizzano il CRISPR-cas.
Ma in cosa queste nuove tecniche si differenziano dagli OGM, dato che comunque si tratta di biotecnologie che modificano il genoma?
“Si può dire che le NGT sono più precise – spiega Matteo Lener – ed è per questo motivo che per queste tecnologie si sta cercando di costruire una procedura autorizzativa più veloce che però non faccia venire meno il controllo costante”. “Più preciso – aggiunge Lener – significa meno rischioso, ma ciò non toglie che il nostro ruolo resti quello di valutazione del rischio per l’uomo e per l’ambiente, aspetto, questo, ancora al vaglio sul piano europeo”. Tuttavia, “la posizione che si sta sviluppando nell’ambito della maggioranza della comunità è che queste NGT, a differenza degli OGM, hanno caratteristiche che le rendono potenzialmente meno rischiose, in virtù della loro precisione: si riesce, cioè, a decidere dove andare a inserire la mutazione, in quale punto esatto del genoma. Diversamente, i prodotti transgenici che si trovano sul mercato oggi sono stati sviluppati con delle tecnologie che non consentivano di sapere dove si andava ad inserire la mutazione, perché non era possibile selezionare un punto preciso”. In sostanza, nel caso degli OGM, si inseriva un frammento di DNA nel nucleo delle cellule vegetali della pianta in modo casuale, senza poter controllare eventuali effetti secondari; oppure lo si poteva disattivare, inibendone la funzione
Oggi, invece, con le NGT si può decidere dove operare la modifica e cosa fare in modo che il rischio di mutamenti “non intenzionali” si riduca, sottolinea Giovannelli: tuttavia occorre tener presente, ad esempio, che nel passaggio da cellule vegetali in vitro – in cui si opera la trasformazione – alla pianta intera, si possono introdurre mutazioni indesiderate.
Oggi, in sostanza, si sta autorizzando la sperimentazione, per comprendere e verificare quanto siano precise queste NGT, per evitare rischi che lo sviluppatore tendenzialmente nega, ma della cui eventualità i valutatori devono occuparsi e di cui il legislatore deve tenere conto.
Il 5 luglio sapremo cosa sceglierà la Commissione europea, nell’ottica di snellire l’iter autorizzativo e accorciare i tempi per la valutazione del rischio, che deve restare un passaggio imprescindibile. È probabile che la norma voglia identificare delle categorie di rischio: al momento gli Stati membri non sono del tutto coesi su questo punto e ci sono quelli che spingono sul lato del controllo, convinti che degli effetti indesiderati potrebbero verificarsi.
Ciò che è certo, tuttavia, è che la ricerca non si deve fermare, perché semplicemente “non si può farlo”, ribadiscono gli esperti di ISPRA.
“Non siamo mai stati contrari alla sperimentazione ed è anche importante il supporto che, nel nostro ruolo di valutatori, potremo ricevere dalla ricerca che si porta avanti nelle Università e che potrebbe fornire informazioni importanti a riguardo”, riferisce Giovanni Staiano.
Per ciò che concerne il rischio ambientale, ribadisce Giovannelli, “continueremo ad applicare metodologie e strumenti definiti, perché il nuovo decreto non cambia la sostanza della norma, semmai accelera semplicemente le tempistiche, non stravolgendo nulla, ma cercando di sbloccare un sistema che si era arenato sul piano burocratico: si rende, insomma, più agile la possibilità della sperimentazione, senza ammorbidire il processo valutativo”.
Il ruolo di ISPRA, ad oggi, lo sottolinea Staiano, è, dunque, quello di “dare informazioni su quello che sta accadendo, fornendo degli strumenti di comprensione. Il corpus giuridico attuale aggiunge – sia a livello europeo sia a livello di ratifica italiana – non risulta assolutamente depotenziato”.
Infatti, rispetto a quali tecnologie rientreranno tra le NGT, l’Italia potrà stabilirlo solo dopo la pronuncia europea: uno spartiacque, in questo senso, è senz’altro costituito da una sentenza della Corte di giustizia europea del 2018, secondo la quale tutti gli organismi ottenuti con nuove tecnologie che ne modificano il genoma successive al 2001 sono da considerarsi OGM, anche se non esplicitamente menzionate dalla direttiva 2001/18. L’UK, essendo fuori dall’Europa, ha già fatto un passo avanti escludendo alcune delle tecniche meno invasive – come quelle che introducono solo mutazioni puntiformi o di pochi nucleotidi (SDN1)– dagli OGM.
Il mondo del biologico, dal canto suo, non dovrebbe aver nulla da temere, per i tre ricercatori. “La tecnica in sé non può avere un impatto positivo o negativo perché semmai la riflessione va fatta sull’organismo che viene prodotto,”, puntualizza Giovannelli.
L’unico problema che si potrebbe ravvisare sta nel fatto che alcune tecniche potrebbero produrre organismi non tracciabili: la modifica potrebbe essere tale da produrre cambiamenti che potrebbero trovarsi già in natura o raggiunti con l’incrocio tradizionale: si tratta di un problema che viene già affrontato nel caso delle importazioni poiché non sempre il produttore dichiara l’origine.
“Per il mondo del biologico potrebbe essere considerata problematica l’eventuale contaminazione e la coesistenza tra i due sistemi, soprattutto se uno dei due non fosse tracciabile, ma ci si troverebbe su un piano per lo più normativo”, scandisce Lener.
Ciò che invece è certo è il vantaggio offerto dalle nuove tecnologie, ovvero la rapidità con cui realizzare le modifiche.
Un esempio: il cambiamento climatico e le problematiche che sta causando a certe coltivazioni; quale potrebbe essere il contributo delle NGT?
“Diciamo che se fosse stata già messo a punto una procedura che consente di modificare una pianta affinché possa resistere meglio agli impatti che determinano le nuove condizioni climatiche, allora sì, si potrebbero ottenere velocemente le modifiche”, scandisce Staiano.
La ricerca non va fermata, quindi, e al contempo il controllo non va inibito: ciò non significa ‘perseguitare’ ma prendersi cura dei procedimenti e fare attenzione.
Chiara Affronte