“La situazione attuale della crisi dei negozi specializzati in biologico non è un problema che possa essere risolto dalla politica. È un discorso squisitamente economico in cui le aziende del settore, devono adeguarsi allo scenario di mercato mutato e attivare proprie strategie”. Così Marco Mascagni, presidente di ECO-BIO Confesercenti, la prima associazione dei dettaglianti specializzati in biologico, nata nel 2011 che vede tra i maggiori punti vendita associati, quelli legati alla catena EcoNaturaSì, ma che complessiva rappresenta una quindicina di aziende e/o insegne bio con i rispettivi store, commenta con favore la nascita della rete di imprese ‘Italia in Bio’.
Intanto, mentre il mercato si preparare a riorganizzarsi in base ai mutamenti nella geografia distributiva, la campagna di promozione del Bio, che partirà dall’autunno prossimo, realizzata dal MIPAAF, ISMEA e Assobio, si annuncia come un elemento importante non solo per la costruzione della domanda di prodotti bio, ma anche per la sopravvivenza degli stessi store specializzati che professano valori e logiche completamente diversi da quelli della grande distribuzione organizzata.
– Come considera la nascita della rete di imprese ‘Italia in Bio’ che si è appena costituita?
“Sono aggregazioni certamente necessitate dalla congiuntura di mercato particolarmente difficile, soprattutto per gli store specializzati, visto l’ingresso nel settore della GDO che ne erode progressivamente quote di mercato. In passato, nella nicchia agroalimentare bio, composta prevalentemente da negozi e produttori indipendenti, alternativi e fieri di esserlo, si faceva fatica a creare massa critica distributiva proprio per il DNA stesso degli operatori del biologico; mentre adesso, si capisce la necessità di unirsi per far fronte comune e, quindi anche economie di scala, in risposta alla ‘massificazione’ del biologico derivata dall’ingresso della GDO tra i canali distributivi, negli ultimissimi anni”.
– I negozi specializzati denunciano una mancanza di rappresentanza politica. Come lo commenta?
“Non è vero. Innanzitutto c’è questa associazione che nata in sordina nel 2011-2012 ed è diventata a carattere nazionale nel 2015. Peraltro segnalo che la situazione attuale della difficoltà dei negozi specializzati non può essere risolta a livello politico ma è una questione strettamente economica che va affrontata sul mercato tenendo a mente che, una nicchia produttiva qual è il settore bio, non può pensare di avere chissà quale peso politico”.
– Gli obiettivi europei, però, spingono per fare uscire il bio dal concetto di nicchia di mercato…
“Vero e l’ingresso della grande distribuzione, tra i canali di vendita dei prodotti bio, ne è la prova. Tuttavia si fa fatica a fare aggregazione tra distributori come anche tra produttori, proprio per le caratteristiche che le dicevo prima. In passato si sono costituite tante iniziative aggregative e tutte sono naufragate, fino ad oggi. Alcuni operatori, come EcoNaturaSì, sono usciti dal concetto di negozio di nicchia per usare logiche di mercato e non solo più idealisticamente legate al mondo del bio. È necessario se non si vuole soccombere, iniziare ad efficientare la catena di fornitura e creare economie di scala che permettano di giocare sui margini”.
– In che senso?
“Pensando al funzionamento di NaturaSì e al suo rapporto con i tanti fornitori disaggregati, c’è bisogno di aggregazione anche sul fronte produttivo per rendere più agevole la catena di approvvigionamento dei punti vendita. In pratica un conto è avere a che fare con 100 piccoli produttori ognuno col proprio marchio e con il proprio prodotto; un altro, è avere a che fare con uno o, comunque, pochi, fornitori. Questo non è il momento di una visione romantica del bio. Dobbiamo fare i conti con le economie di scala che sono necessarie più che mai anche in considerazione del fatto che usciamo da due anni molto pesanti che hanno trasformato letteralmente le abitudini alimentari del consumatore e limitato in maniera significativa il suo potere di acquisto”.
– Qual è il target di acquirenti dei negozi specializzati?
“Noi abbiamo uno zoccolo duro fatto dal 20% dei nostri consumatori, che esauriscono tutta la spesa nei nostri negozi. L’80%, invece, viene per completare tra i nostri scaffali, il proprio paniere di spesa già realizzato per la gran parte in un supermercato”.
– Qual è stato l’impatto economico sugli specializzati derivato dall’ingresso della GDO nella distribuzione di bio?
“Parlo per le piazze di Bologna e Firenze che conosco meglio. Quello’80% di clienti, chiamiamoli impropriamente ‘generalisti’, è diminuita di circa il 3%”.
– Non sembra una perdita significativa…
“Al contrario. In un piccolo negozio, come sono la maggior parte degli specializzati, con fatturati, per capirci, che arrivano massimo ad un milione di euro l’anno, togliere il 5% del giro di affari significa manderli in forte difficoltà”.
– In che modo si può contribuire, come specializzati, al processo di costruzione della domanda che sta per partire con la mega campagna di promozione del bio che il Mipaaf sta per lanciare nell’autunno e che sarà guidata da Ismea in collaborazione con Assobio?
“Se cresceranno dei consumatori di bio, cresceranno, credo, per tutte le categorie di distributori. L’aumento della domanda verrà spalmata su tutti i canali”.
– Ma i nuovi consumatori, quelli che escono impoveriti dal covid e quindi guardano prima di tutto i prezzi, che si avvicinano per la prima volta al bio, come fanno a capire la differenza di filosofia che sta dietro alle logiche di un grande retailer che vende anche bio, rispetto ad una piccola insegna o a un singolo punto vendita che di Bio vive? Non pensa se la campagna di comunicazione non venga ben studiata possa contribuire a spostare l’asticella verso la GDO che non ha il controllo di tutte le filiere?
“Non penso che perderemo i clienti fidelizzati. Al massimo li aumenteremo. Ma dobbiamo necessariamente rispondere con un efficientemento delle nostre catene di fornitura, lasciando da parte i romanticismi e concentrarci sulle economie di scala”.
Mariangela Latella