L’equilibrio tra produttività e sostenibilità non solo è possibile ma è doveroso

Piva

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In questi giorni, purtroppo caratterizzati dall’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina, stiamo sperimentando i fondamentali di un’economia di guerra. I prezzi dell’energia e delle materie prime hanno raggiunto livelli assurdi, le difficoltà logistiche e la speculazione completano il quadro rendendo difficile la consegna delle merci ed alcune manifatture hanno ridotto, se non sospeso, l’attività produttiva stante l’impossibilità a produrre a costi sostenibili, ovvero tali da poter essere riversati sui prezzi e sulla domanda.

Tutto ciò, sul fronte agroalimentare, sta determinando una pressante richiesta al mondo produttivo di produrre di più e alla “burocrazia” di allentare quei vincoli che, nel gergo della PAC (Politica Agricola Comune), vengono chiamati “condizionalità”, ovvero rotazione delle colture, zone non coltivate ma “coperte” con colture di copertura, lavorazioni del suolo ridotte etc. che sono stati posti dall’UE sotto la denominazione di “greening”, quasi fossero dei meri vincoli ambientali.

Tutto ciò rischia di essere letto alla stregua della ormai classica contrapposizione fra quantità e qualità, ovvero dobbiamo produrre di più indipendentemente dai vincoli ambientali e dai danni che possiamo arrecare alla produttività futura. Per chi non ha la memoria corta, dobbiamo ricordare che il principio su cui l’UE ha fondato la propria PAC fu, proprio alla fine degli anni ‘50, il principio dell’autosufficienza alimentare. Obiettivo che venne raggiunto all’inizio degli anni ‘80 e che portò l’UE a spendere ingenti risorse per il sostegno dei prezzi agricoli e la gestione delle eccedenze. Da ciò il Commissario MacSharry, all’inizio degli anni ‘90, introdusse le misure di accompagnamento quali le misure agroambientali, il biologico, la forestazione, il set aside ed il prepensionamento in agricoltura, grazie alle quali ridusse le eccedenze ed i loro costi e accanto a questo obiettivo introdusse il rispetto dell’ambiente nella direzione di un’attenzione via via più crescente che emergeva dai cittadini europei.

È importante ricordare questi aspetti onde evitare che con una certa faciloneria qualcuno possa scambiare l’attenzione alla risorse ambientali come un ostacolo all’obiettivo, sicuramente importante, di produrre di più.
Chi scrive ha sempre, anche nell’intervento della scorsa settimana, sottolineato il principio dell’intensificazione e dell’innovazione sostenibile. Dovevamo produrre di più, al di là della guerra, per soddisfare le esigenze di una popolazione in crescita. In questo contesto non va dimenticato che la produttività, da non confondersi con la produzione, ha un limite economico che è il costo: in agricoltura non è economicamente giustificato spingere le rese unitarie oltre un certo livello in quanto il principio dei rendimenti marginali decrescenti ci porterebbe ad avere quote di prodotto il cui costo sarebbe superiore al proprio margine/valore. Tale livello sarebbe più facilmente raggiungibile quando i costi dei fattori produttivi sono elevati; pensiamo al costo dell’urea intorno ai 100 euro/q.le o al nitrato ammonico neppure più disponibile. Oltre all’aspetto economico vi è anche quello ecologico; il mancato rispetto delle risorse naturali porta ad un impoverimento che, purtroppo, non è più futuro ma è contingente e costituisce un limite alla produttività delle terre. In questo ambito giocano un ruolo importante la ricerca e l’innovazione sostenibile, ovvero come produrre di più con meno risorse, fra l’altro sempre più costose.

La guerra in corso non fa altro che accelerare un’esigenza che è in agenda da fin troppo tempo: come produrre di più in modo sostenibile? Non certo dissodando terreni che nel nostro Paese neppure sono disponibili, se non nelle esigue percentuali disponibili della PAC o tornando ad all’agricoltura energivora (con il barile di petrolio a più di 110 $?) degli anni ‘70.
La mancanza di terreni disponibili è facilmente dimostrabile ricordando che nel corso del 2020 il tasso di autoapprovvigionamento dell’Italia era del 36% per il grano tenero, del 53% per il mais (10 anni fa eravamo autosufficienti), del 56% per il grano duro, del 73% per l’orzo e di pochi punti % per la soia quale base proteica per i nostri mangimi.

Se questo è il quadro delle materie prime non dimentichiamo il ruolo del settore agroalimentare nel suo complesso che nel corso del 2020, a fronte di un import pari a 46,8 miliardi di €, ha esportato per 51,9 miliardi di € con un saldo commerciale di poco più di 5 miliardi di €. La stessa UE (dati Eurostat), nei primi 10 mesi del 2021 ha fatto registrare un saldo commerciale della bilancia agroalimentare pari a 57,5 miliardi di €.

Ciò sta a testimoniare che la “qualità paga”, l’export dell’Italia è caratterizzato da una maggiore qualità e da un settore attento alle esigenze ambientali; la qualità inoltre mantiene competitivi a medio termine anche i costi di produzione perché preserva parzialmente i settori produttivi dalle speculazioni a carico delle fonti energetiche fossili.

La sostenibilità è la carta più importante da giocare per mettere a coltura i terreni ancora non utilizzati e per intensificarne la produttività in una logica futura di mantenimento.

Fabrizio Piva

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