La crisi Ucraina e, in genere la chiusura dei due mercati più grandi al mondo, Russia e Ucraina, nella produzione di materie prime alla base della catena alimentare (cereali e oli vegetali) sta creando di fatto, in Italia e nel mondo, una sorta di competizione tra produttori di Bio e produttori di materia prima convenzionale a causa dell’assottigliamento della forbice tra le due categorie merceologiche.
Tra i settori più penalizzati quello dei mangimi derivati dalla produzione cerealicola che, a differenza del settore Food, sono meno tracciati e quindi subiscono una spinta alla speculazione favorita dalla non sempre presente trasparenza. Intanto la Spagna da ieri, martedì 8 marzo, ha iniziato il razionamento dell’olio di girasole, bio e convenzionale: non se ne possono acquistare più di tre bottiglie al giorno per persona.
Diverso il discorso sulle produzioni cerealicole Bio per le quali l’Italia ha spesso ragionato in un’ottica di filiera corta, approvvigionandosi dai produttori Bio nazionali per i lavorati made in Italy al 100%.
I dati
Secondo la banca dati Sinab 2020 (l’ultima disponibile, ndr) del Ministero dell’Agricoltura, nel 2019, l’Ucraina è risultata molto importante per l’Italia per l’importazione di fave di soia (circa 3mila tonnellate l’anno); semi di girasole (più di 2mila tonnellate l’anno) e granoturco. Dall’Europa extra UE, secondo il Sinab, nello stesso anno abbiamo importato 33mila tonnellate di cereali, il 10% in più rispetto al 2018 e in ogni caso, quest’area geografica rappresenta il secondo fornitore, dopo l’Asia, di prodotti biologici, soprattutto mais con circa 3mila tonnellate l’anno.
Gli olii vegetali Bio
La chiusura del mercato ucraino, dopo l’invasione russa, ha sparigliato, sullo scenario internazionale, tutte le carte dell’import export globale delle materie prime a cominciare dall’olio di girasole di cui l’Ucraina coltiva l’80% della produzione mondiale. Sono nell’occhio del ciclone colture quali gli olii vegetali in generale, il grano tenero, grano duro, mais e soia.
In sostanza, oggi, sul mercato, olio di girasole non se ne trova. Né Bio né convenzionale. Gli accordi tra i trader saltano e il prodotto che si trova sul mercato globale viene venduto al migliore offerente. Un bel problema se si considera che quest’olio, oltre ad essere un prodotto finito, rappresenta anche una materia prima alla base di molti trasformati presenti sugli scaffali.
Se prima della guerra e, ancora prima della pandemia, il prezzo dell’olio di girasole oscillava tra il 1.600 e i 1.800 euro a tonnellata, adesso si superano tranquillamente le 3.000 euro. I player del mercato, per giocare al rialzo dei prezzi e liberarsi da contratti oggi ritenuti ‘capestro’, ancora in corso con le vecchie quotazioni, fanno richieste di mercato impossibili ai fornitori e ai broker, che esulano dalla capacità di stock dei trader.
“Si fa fatica ad individuare quanto prodotto Bio è venuto a mancare perché non esistono dei codici doganali specifici per il prodotto Biologico – ci spiega Maurizio Bernaroli, CEO e founder di Bernam srl, tra i maggiori brokers italiani specializzati nel settore dell’agricoltura biologica. L’unico strumento esistente per tracciare l’export di prodotto certificato è la banca dati Traces della Commissione Europea che però andrebbe implementata”.
L’impennata dei prezzi
In linea generale, secondo i dati del broker della XTB, un’autorevole istituzione polacca di intermediazione sui mercati internazionali, il prezzo del grano è aumentato del 34% e del mais del 40% rispetto al 1° febbraio, nel contesto della crisi in atto nell’Ucraina. Oltre al gas naturale e al petrolio, il grano, il mais e altri prodotti agricoli sono fortemente influenzati dagli eventi nella regione del Mar Nero. Inoltre, indirettamente, attraverso l’esportazione di fertilizzanti, la regione gioca un ruolo significativo sul mercato agricolo ad ogni livello.
L’Ucraina è nella top 5 esportatori mondiali di grano ed insieme alla Russia, rappresentano un quarto delle risorse globali. Oltre al grano, si tratta anche di esportazioni di mais e soia, di cui l’Ucraina è tra i primi 10 produttori al mondo. La situazione attuale potrebbe influire non solo sul trasporto, ma anche sulla capacità di effettuare pagamenti e operare con lettere di garanzia. Sul mercato europeo, il prezzo del grano è cresciuto del 34%, dai 269,25 euro/tonnellata del primo giorno di febbraio ai 360,75 euro/tonnellata di mercoledì in chiusura, con un picco di 390 euro. Per il mais l’aumento è compreso tra 253 e 355 euro/ton tra il 1° febbraio e il 2 marzo, il che significa una crescita del 40%, insolitamente forte, con variazioni rapide in brevissimo tempo. I semi di colza e il grano all’Euronext sono saliti di quasi 40 €/t, superando gli 830 €/t per il primo e i 340 €/t per il secondo, all’indomani dell’attacco russo del 24 febbraio.
I Tavoli ministeriali
È proprio questo uno degli argomenti al centro dell’incontro di ieri tra il ministro Stefano Patuanelli e il coordinamento che riunisce Cia-Agricoltori italiani, Confagricoltura, Copagri e Alleanza delle Cooperative Agroalimentari che da un lato chiedono interventi per calmierare in prezzi e dall’altro di implementare la banca dati di Traces. Il tavolo è stato richiesto proprio per trovare una quadra sul rincaro dei prezzi delle materie prime alimentari di cui l’Italia è deficitaria per specifiche scelte di politica agricola e che ora ne paga lo scotto.
Qualche esempio: sul Grano duro siamo deficitari per il 35%; su quello tenero per il 45-50%; sul mais per il 50%. “L’agroalimentare – si legge in una nota di Agrinsieme – è il primo settore produttivo del Paese. È necessario sostenere le produzioni con specifici e rapidi interventi che assicurino la tenuta della competitività delle imprese, in particolare quelle zootecniche che stanno affrontando i rincari senza però poter ammortizzare questi maggiori costi. È urgente tutelare il potenziale produttivo nazionale, specificatamente per il comparto seminativi e ripensare ad alcune scelte europee anche in campo energetico, intervenendo ove possibile anche supportando i consumi delle famiglie”.
A fronte dell’attuale, tragico, contesto internazionale, al Ministero delle Politiche agricole è stato convocato, per giovedì 10 marzo, il tavolo sul grano per un confronto tra gli stakeholder della filiera. Qualsiasi decisione politica deve avere come base i dati oggettivi attuali, ossia i fabbisogni nazionali e la quantità di grano che effettivamente viene movimentato sul territorio nazionale. Sul punto si è espresso anche Luciano Cillis, esponente M5S in Commissione Agricoltura e ideatore di ‘Granaio Italia’: “Auspico che uno degli argomenti del tavolo possa essere la pronta attuazione concreta di ‘Granaio Italia’ così da avere quanto prima un sistema efficiente e utile di monitoraggio di farine e cereali”.
L’incognita di ‘fine stock’ e siccità
In base ai dati USDA, la Cina entro l’estate potrebbe possedere il 60% delle scorte mondiali di grano e il 70% di mais, ma le quantità residue per il resto del mondo sarebbero comunque sufficienti per arrivare all’inizio del prossimo raccolto in estate.
In particolare, la Cina potrebbe avere entro qualche mese 168 milioni di tonnellate di grano e 212 milioni di tonnellate di mais, mentre a disposizione del resto del mondo resterebbero 110 milioni di tonnellate di grano e 90 milioni di tonnellate di mais. Russia e Ucraina con il loro quantitativo stimato (12,6 milioni di tonnellate di grano e 1,85 milioni ditonnellate di mais) rappresentano l’11,5% di grano e il 2% di mais a disposizione del resto del mondo.
Ma la crisi ha bloccato tutto. “Molte delle aziende legate all’import export di materie prime agricole Bio, presenti in Ucraina, in pochi giorni si sono fermate – specifica Bernaroli -. Come l’austriaca VFI, l’olandese Biocore. Non è possibile oggi capire quando e se finirà questa grave instabilità del mercato” . Tutto ciò comporta un’altra variabile ingovernabile: ossia prevedere quando il prodotto mancherà completamente dal mercato anche perché a causa della guerra in corso, quest’anno in Ucraina non ci saranno le semine mentre in Italia, oltre alla produzione deficitaria delle forniture si aggiunge anche una delle più gravi siccità mai subite che, già a semine avvenute di grano tenero e duro, ha determinato una perdita in partenza di prodotto Bio del 15-20%. Un numero che potrebbe peggiorare se da qui ad aprile non pioverà.
“Un’altra filiera in crisi – aggiunge Bernaroli – è quella del caffé d’orzo perché il 40% dell’orzo europeo viene dall’Ucraina. In trincea tutte le principali aziende del Bio correlate a questa filiera, come per tutte quelle interessate. Sull’Orzo c’è la Crastan di Pontedera, in Toscana, specializzata nella produzione di orzo Bio che si trova a dovere competere con i Polacchi, principali concorrenti, che vedendosi chiuso il mercato ucraino stanno venendo a cercare prodotto, già carente, in Italia”.
La ‘nebulosa’ mangimi Bio
Il settore mangimi Bio rappresenta un grande punto interrogativo, non solo e non tanto per la produzione di capi di bestiame, ma soprattutto per la produzione di derivati come le uova perché, se il settore Food è molto tracciato, quello del ‘feed’, sotto questo aspetto, pecca. Abbiamo chiesto dei lumi ad Eurovo, leader nella produzione italiana di uova bio, il quale però, per bocca di un portavoce, ci ha fatto sapere di non essere ancora pronto a rispondere “perché la crisi è ancora troppo recente”.
Dal canto suo Barilla, fa sapere, sempre per bocca di un portavoce che: “Il problema del commercio cerealicolo non riguarda direttamente la sede italiana della multinazionale di Parma, perché dall’Ucraina non importa nulla. Per quanto riguarda il mercato russo, invece, Barilla ha una sede in loco che produce e vende prodotto locale”.
Le aste ai tempi della guerra
È noto, tra gli operatori del settore Bio, che il Gruppo Casillo (che abbiamo invitato a commentare ma che ha declinato la nostra offerta, ndr) abbia venduto, in una delle ultime aste in Tunisia, una partita molto importante di grano duro a circa 540 euro a tonnellata. Una cifra con cui si fa davvero fatica a trovare l’equivalente Bio, proprio per un effetto assottigliamento della forbice che si sta verificando sul mercato e che oggi rende più conveniente vendere prodotto convenzionale piuttosto che bio anche alla luce dell’aumento dei costi di gas, elettricità e petrolio.
Contraddizioni europee
“Tra le conseguenze dirette di questa crisi – spiega Massimo Masetti, direttore del Consorzio agrario di Ravenna – c’è il fatto che altri Paesi, anche se membri dell’Unione europea, stanno chiudendo le frontiere per questo tipo di esportazioni”.
Si pensi all’Ungheria che ha chiuso l’export di cereali da sabato scorso per via di un cavillo tecnologico, nascondendo di fatto, dietro un dito la sua politica protezionistica all’interno dell’UE. Questo, oltre a fare traballare la tenuta della politica agricola comune in sé e per sé, da un’ulteriore spinta all’aumento dei prezzi di questi prodotti.
“Servono interventi urgenti per calmierare la situazione – afferma Masetti -. Noi ci approvvigioniamo per i cereali dai Paesi che si affacciano sul Mar Nero, ma se questo non è più possibile siamo costretti a rivolgerci fornitori oltreoceano come USA, Argentina, Brasile e Australia dove la maggior parte dei cereali sono OGM. Una soluzione potrebbe essere quella di spingere le colture interne italiane verso la riconversione in bio, ed ampliarne quindi le superfici, anche se il discorso è complesso per problemi, innanzitutto, di resa produttiva. In pratica, se il tema è avere Bio, occorre riconvertire, ma se il tema è che manca la materia prima, la questione è che bisogna puntare a ridiventare autosufficienti e riprendere in mano una filiera che ci siamo persi per strada”.
Su questo punto, si è pronunciato anche il CAI – Consorzi Agrari d’Italia. “Se l’Europa si dimostrerà unita – spiega Gianluca Lelli, amministratore delegato di CAI -, senza inutili e dannosi slanci protezionistici dei singoli Paesi, gli approvvigionamenti di grano e mais non mancheranno e non ci sarà bisogno di alcuna deregulation comunitaria su OGM, limiti dei residui massimi e prodotti fitosanitari vietati già da qualche anno che penalizzerebbero gli agricoltori italiani e danneggerebbero consumatori italiani ed europei”.
“Se Paesi come l’Ungheria, da cui l’Italia importa il 30% di grano tenero e il 32% di mais – continua Lelli -, confermassero l’intenzione di blindare le proprie scorte, in quel momento si aprirebbe un problema serio. Occorre fare un’operazione verità e dire che c’è sufficiente disponibilità di prodotti agricoli sul mercato. Chiediamo al Governo di vigilare su atteggiamenti speculativi di chi mira ad affossare le produzioni italiane, e di profondere il massimo impegno per garantire che l’Europa sia davvero unita in questo momento di grande crisi per evitare problemi molto più grandi a Paesi, come l’Italia, che non sono autosufficienti con le proprie produzioni e che purtroppo in passato non hanno investito a sufficienza sui contratti di filiera.
Allo stesso tempo chiediamo al Governo di evitare qualsiasi deregulation europea su OGM, limiti dei residui massimi o prodotti fitosanitari vietati già da qualche anno, per evitare di danneggiare gli agricoltori italiani che da sempre producono bene, nel pieno rispetto delle regole, e di penalizzare i consumatori”.
Un’opportunità per l’Italia?
Secondo Paolo Carnemolla, segretario generale di Federbio, la situazione presente potrebbe rappresentare, oltre che un rischio di incremento delle frodi sul Bio, anche un’opportunità per l’Italia.
“I grandi importatori europei delle materie prime ucraine e russe – dice Carnemolla – sono gli olandesi ed i tedeschi che dovranno adesso trovare nuovi fornitori Bio. L’Italia ha le superfici e ben può competere con altri fornitori europei come la Grecia e la Bulgaria o extra europei come la Turchia. Certo costa convertire in Bio anche per via delle minori rese ma basta lavorare bene su tecniche colturali. Fino ad oggi si è preferito il grano estero perché costava meno. Questa crisi geopolitica ha toccato un nervo scoperto e forse è il caso che ci si metta a lavorare a delle filiere italiane”.
Il nodo fertilizzanti
Un’altra delle conseguenze della guerra Ucraina sul mercato Biologico è quello del forte aumento dei prezzi dei fertilizzanti minerali. La Russia è un giocatore chiave nel mercato e il suo isolamento economico dovrebbe portare a interruzioni di fornitura. I prezzi dell’urea e del DAP sono triplicati dall’inizio dell’anno, anche se i prezzi sono raddoppiati nel 2021. L’urea vale ora 777 euro/t (con consegna a marzo) e il DAP 895 euro/t. E probabilmente c’è di più: le sanzioni economiche contro la Russia e la Bielorussia priveranno l’agricoltura mondiale di considerevoli volumi di fertilizzanti, facendo temere grandi sconvolgimenti.
La Russia rappresenta il 13% del commercio di prodotti fertilizzanti intermedi (ammoniaca, roccia fosfatica, zolfo) e il 16% del commercio di fertilizzanti finiti. Il principale clienti per questo tipo di fertilizzanti è il Brasile che, se rimane a secco, con i suoi 20 milioni di ettari di mais coltivati (è il terzo produttore al mondo), comporterebbe conseguenze ancora più serie sul mercato. Ma il mais non è l’unica coltura colpita poiché i fertilizzanti azotati sono anche essenziali per i cereali, la canna da zucchero e la barbabietola, colture tipiche del colosso sudamericano, e una rottura delle forniture al Brasile non potrebbe essere compensata da Canada, Germania, Israele e Giordania.
Per ridurre la sua dipendenza da questa materia prima, in particolare dalla Russia, e per offrire fertilizzanti “decarbonizzati”, Yara, leader mondiale dei fertilizzanti minerali azotati, ha appena annunciato che il 30% del suo nitrato di ammonio sarà prodotto dall’idrolisi dell’acqua – e non dal gas – a partire dal 2023. Questa “tecnologia rivoluzionaria”, che richiede investimenti massicci, è però da 4 a 5 volte più costosa.
Inversione di rotta sul Green Deal?
Dall’interprofessione francese dei cereali arriva, infine, la richiesta all’Unione europea di abbandonare la strategia Farm to Fork nella sua forma attuale. “Data la situazione – fa sapere l’organizzazione in una nota -, è inconcepibile parlare di meno terra coltivabile e meno innovazione. La transizione ecologica va bene, ma dobbiamo rimettere i nostri interessi strategici in cima al mucchio”.
Mariangela Latella