È crisi per il mercato del farro biologico in Italia

Maurizio Bernaroli

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È stallo totale per il mercato del farro biologico in Italia e, in generale si registrano ammanchi di cereali bio fino al 30% del fabbisogno dell’industria molitoria. La crisi deriva dalla mancanza una banca dati organica che generi trasparenza sui volumi presenti sul mercato.
Ne parliamo, in un’intervista esclusiva per GreenPlanet, con Maurizio Bernaroli, consigliere di amministrazione di Assobio nonché CEO e fondatore di Bernam srl, uno dei maggiori broker nazionali specializzati nel settore dell’agricoltura biologica e nello specifico di semi, grani (cereali), panelli e oli, sia nazionali che esteri.
– Bernaroli, cosa sta succedendo al mercato del farro?
“C’è un’anomalia tutta europea che influenza i prezzi di mercato”.
– Di che si tratta?
“Ci sarebbero circa 10mila tonnellate di farro, varietà Spelta, altrimenti detto gran farro, che attualmente è il più comune, che sarebbero stoccate tra Lituania, Ungheria e Germania e la cui possibilità di rilascio influenza i prezzi di mercato. Si tratta di una cosa non da poco anche perché tra tutte le varietà è la più usata anche perché ha una buona conversione in carboidrati verso glucosio e per questo, da due tre anni lo producono quasi tutti i Paesi cerealicoltori”.

– Può essere più chiaro?
“Siccome è un prodotto facile da coltivare, appena gli agricoltori hanno avuto avvisaglia di un interesse di mercato ne hanno iniziato a coltivare grandi quantità. Il rischio adesso, però, è che tutto quel farro venga destinato a biomassa perché a tenerlo stoccato implica dei costi e non c’è possibilità di smaltirlo come cinque anni fa quando non era così comune”.

– È la legge di mercato. Ognuno può coltivare ciò che vuole.
“Certo, ma sarebbero necessarie, per regolare il mercato, delle banche dati che rendano trasparenti i flussi di merce presenti. Non che manchino, si pensi ad Accredia o a Sinab. Tuttavia non sono integrate tra loro e non sono neanche aggiornate in tempo reale. Sono strumenti importanti che al momento non abbiamo, che servono a rendere più fluido l’incontro tra domanda e offerta. Il punto è che sappiamo benissimo quanti ettari sono coltivati, perché gli agricoltori devono denunciare cosa seminano, ma non quanti volumi di prodotto ci sono sul mercato. Questo porta alle distorsioni che si stanno verificando oggi con il farro Spelta”.

– Come va, in generale, l’import-export di cereali biologici?
“Fino a sette-otto anni fa, il nostro prodotto si esportava in tutti i Paesi, fra cui la Francia, ad esempio, dove all’epoca non c’erano ancora molti ettari bio. Oggi, a distanza di poco più di un lustro, la Francia è un netto esportatore di cereali e i rapporti con l’Italia si sono nettamente invertiti. Importiamo molto prodotto dall’estero e si fa sempre più fatica nonostante il prodotto ci sia”.

– A causa dell’impennata dei costi?
“Non solo per l’impennata dei costi del trasporto ma anche per il fatto che si fa fatica a trovare disponibilità di spedizionieri per mancanza di ritorni di carico, ossia di merce che riempia il carico per il viaggio di ritorno. Se non ce n’è, il committente deve pagare anche il carico vuoto di rientro e quindi si raddoppiano i costi, già doppi alla base. Per questo stesso motivo, se alcuni mulini italiani in questa fase stanno crescendo a doppia cifra in fatturato, altri, che lavorano cereali bio, rischieranno di rimanere senza materia prima già dai prossimi mesi. Già adesso si registrano ammanchi fino al 30% in meno”.

– Dove va rintracciata la causa?
“Alla base. Se un produttore deve scegliere di coltivare bio o convenzionale con una redditività quasi uguale, è ovvio che coltivi prodotto convenzionale, è più conveniente. E poi ci sarebbe anche l’anomalia del grano duro in Italia”.

– Ossia?
“Mentre con il tenero si fanno un’infinità di prodotti finiti dai dolciumi a tutto il settore dell’industria del bakery, con il grano duro si hanno, come prodotti, oltre al grano, la semola e la pasta. Quest’anno, assistiamo ad una continua discesa dei prezzi per via di un eccesso di prodotto canadese presente sul mercato e certamente non coltivato con i nostri stessi standard biologici. Il grano duro bio vale pochissimo; siamo intorno ai 415 euro a tonnellata e la china è quella del deprezzamento ulteriore. Una questione che inevitabilmente si ribalta anche sulla produzione lorda vendibile ossia l’equivalente in volume di quel corrispettivo. Per il grano duro non possiamo pensare di competere con i Paesi come il Canada o gli Stati Uniti dove le aziende agricole hanno migliaia di ettari. In quel caso, anche se la resa per ettaro è minima, per le economie di scala, il produttore ci guadagna e anche parecchio, complici anche alcuni importatori. È assurdo se si pensa che l’Italia è la patria della pasta. È come se in Svizzera, terra di orologi, il prezzo di questi oggetti fosse deciso dall’Australia”.

– Come si potrebbe intervenire?
“Negli Stati Uniti o in Canada esiste, alla borsa merci, sia il prezzo di mercato, detto trade gate, che il prezzo al produttore, detto farms gate, che da noi non esiste proprio per quella mancanza di strumenti di tracciamento della merce sul mercato. In questo modo gli agricoltori non hanno possibilità di difendersi dagli tsunami come quello che registriamo adesso per il farro Spelta o per il grano duro, sia bio che convenzionale”.

– Sembrerebbe in un circolo vizioso.
“Non si può pensare di traslare sull’Italia un sistema di grandi economie di scala. Se non lavoriamo sulla qualità e sulla distintività delle produzioni con le denominazioni di origine, siamo fuori gioco, morti, kaput. Bisogna attivare processi di valorizzazione per il grano duro bio e fare in modo che questo collage di strumenti che abbiamo diventino un sistema organico”.

Mariangela Latella

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