Un nuovo attore si sta affacciando sul panorama agricolo europeo e vuole essere ascoltato. È l’Alleanza Europea per l’Agricoltura Rigenerativa (EARA), una rete emergente di agricoltori che promuovono un modello agricolo “rigenerativo”, già affermato in contesti internazionali come gli Stati Uniti. Con la pubblicazione del suo primo rapporto ufficiale – che traccia una visione per un’agricoltura europea più resiliente e orientata al suolo – EARA punta ora a ritagliarsi un ruolo nelle politiche comunitarie. Ma non tutti accolgono con entusiasmo la sua ascesa.
Nata nel novembre 2023, EARA riunisce attualmente 84 agricoltori definiti “pionieri”, equamente divisi tra donne e uomini, molti dei quali già attivi nel biologico. L’organizzazione ha appena lanciato il suo primo rapporto ufficiale e ha avviato un’intensa attività di advocacy nelle istituzioni europee.
Secondo Meghan Sapp, agricoltrice rigenerativa in Spagna e responsabile delle relazioni esterne di EARA, la nuova alleanza non è un fenomeno passeggero. “Siamo qui per restare”, ha affermato in un’intervista a Euractiv, spiegando che il movimento vuole guadagnarsi un posto nei tavoli decisionali al fianco di sigle consolidate come Copa-Cogeca, CEJA, IFOAM o La Via Campesina.
Un approccio più flessibile
L’agricoltura rigenerativa, concetto introdotto negli anni ’80 dal Rodale Institute negli Stati Uniti, punta a ripristinare la salute dei suoli, migliorare la biodiversità e rafforzare la resilienza degli ecosistemi. A differenza del biologico, però, non esclude l’impiego di prodotti chimici.
EARA si propone come un modello inclusivo e pragmatico, che accompagna gli agricoltori in un percorso di transizione piuttosto che imporre regole rigide. “Non possiamo aspettarci che chi lavora con l’agricoltura convenzionale abbandoni tutto da un giorno all’altro”, ha spiegato Sapp, sottolineando come la rigenerazione debba essere un processo graduale.
Lo sforzo, secondo EARA, è soprattutto comunicativo: molti decisori politici conoscono poco o nulla dell’agricoltura rigenerativa. La lobby intende quindi colmare questo divario, senza però rinunciare alla propria identità. “Non siamo qui per replicare il biologico, ma per proporre qualcosa di complementare”, ha precisato Sapp.
Il fronte del biologico: “Slogan senza regole”
Tuttavia, l’arrivo di EARA ha innescato tensioni evidenti con il fronte del biologico europeo, che rappresenta oggi circa l’11% delle superfici agricole in UE.
Eric Gall, vicedirettore di IFOAM Organics Europe, non nasconde la sua preoccupazione. “Tutti vogliono definirsi rigenerativi, è un termine che suona bene. Ma senza regole precise, rischia di diventare solo uno slogan,” ha dichiarato.
Il punto centrale dello scontro è proprio la mancanza di definizioni vincolanti: l’agricoltura rigenerativa, così come promossa da EARA, non prevede il divieto di sostanze chimiche o fertilizzanti di sintesi, tra cui anche il controverso glifosato.
Secondo Gall, questo approccio rischia di generare confusione tra i consumatori e di indebolire un settore, quello biologico, che da decenni opera secondo standard legali e verificabili.
Il caso USA e le accuse di greenwashing
Dall’altra parte dell’Atlantico, le critiche non sono mancate. Negli Stati Uniti, alcune ONG ambientaliste come Friends of the Earth hanno evidenziato che molte aziende agricole che si definiscono rigenerative continuano a utilizzare OGM, pesticidi e fertilizzanti sintetici (vedi news).
La dottoressa Kendra Klein, autrice di uno studio sull’argomento, ha spiegato che la pratica del “no-till” – ovvero la non lavorazione del terreno, diffusa in agricoltura rigenerativa – può portare a un uso intensivo di erbicidi. Secondo lei, sono gli agricoltori biologici “i veri rigeneratori”, poiché operano senza input di sintesi e sotto controlli stringenti.
Il timore è che, senza criteri precisi, il termine “rigenerativo” venga strumentalizzato da grandi aziende per operazioni di facciata. In effetti, giganti come Tyson Foods, ADM, Cargill o Bayer hanno iniziato a promuovere pratiche no-till etichettate come rigenerative.
Nel report pubblicato da EARA, compare anche Unilever come “pioniere del settore privato”. Ma Sapp precisa: “Non ci finanziano, vogliono solo apprendere dagli agricoltori che fanno rigenerazione sul campo”.
Due visioni a confronto
Il dibattito si fa sempre più acceso, anche a Bruxelles. Il fronte del biologico teme una frammentazione delle politiche verdi e una dispersione di risorse a favore di approcci meno verificabili. Secondo Gall, EARA non ha ancora preso posizione pubblica contro i casi evidenti di greenwashing. “Avrebbero potuto farlo, ma finora non è accaduto”, ha dichiarato, sottolineando il rischio di indebolire gli standard ambientali europei. EARA, da parte sua, respinge l’idea di contrapposizione. Il messaggio è chiaro: non si tratta di sostituire il biologico, ma di ampliare le possibilità per gli agricoltori che vogliono avviare una transizione sostenibile.
Il confronto è aperto. Ma in gioco c’è molto di più che un’etichetta: si tratta di decidere quale modello agricolo guiderà la transizione ecologica europea nei prossimi decenni.
La Redazione