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I rischi degli obiettivi UE che trascurano i consumi
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Fin dall’inizio l’UE ha individuato nel biologico il settore in grado di soddisfare una crescente domanda in termini di salute, ambiente, equilibrio sociale ed economico, rispetto del e dei territori e garanzia di futuro, ciò che oggi definiamo sostenibilità. Con il biologico non ci si è fermati ad un “ambientalismo di maniera” ma si è data una risposta economica ad esigenze di tipo ambientale; si è costruito un settore che nel 2021 ha fatturato nell’UE quasi 47 miliardi di euro e quasi 125 a livello planetario.
Pur essendo la SAU aumentata a livello nazionale sia nel 2021 che, ancor più, nel 2022 arrivando a quasi 2,35 milioni di ettari, non altrettanto può dirsi per i consumi che se nel 2021 sono diminuiti, in valore, del 4,6%, nel 2022 sono aumentati rispetto al 2021 dello 0,5% a fronte, però, di un’inflazione nell’ agroalimentare del 9,1% e quindi con una netta riduzione in volume. L’incidenza dei consumi bio sul totale agroalimentare è passata in Italia dal 3,9 al 3,6% nel 2022.
Alla luce di tali valutazioni ci chiediamo, e non certo per provocazione, se non sarebbe stato preferibile che l’UE avesse posto come obiettivo il raggiungimento di una determinata percentuale di consumi alimentari bio sul totale di quelli alimentari, ad esempio il 15% dei consumi entro il 2030 e poi un aggiustamento progressivo sulla base dei risultati raggiunti. Ciò avrebbe comportato un “paniere” di misure ed incentivi lungo la filiera biologica rendendola più efficiente e sostenibile, proprio a partire da quella agricola. Avrebbe evitato, inoltre, il rischio di creare una potenziale “rendita” che in ambito agricolo potrebbe favorire la presenza di produttori scollegati dal mercato biologico e, soprattutto, di aumentare le superfici in una fase di domanda stagnante con il risultato di deprimere le quotazioni delle materie prime e, conseguentemente, ridurre l’interesse del comparto primario verso il biologico.
Il biologico è sempre stato più trainato dalla domanda che dalla produzione, questa è aumentata in quantità e qualità in base alla richiesta di mercato. Ciò è valso anche per l’Italia che, pur avendo una domanda interna inferiore rispetto alla capacità produttiva, ha da sempre alimentato forti correnti di esportazione favorite da un’industria alimentare particolarmente capace ed apprezzata a livello internazionale.
Fissare il raggiungimento di una determinata % di consumo non significa non intervenire in modo adeguato nel settore primario, al contrario significa ancor più spingere per un consumo stabile che si fonda su una filiera agroalimentare in grado di essere efficace e competitiva. Solo una filiera efficiente e in grado di dare risposte economiche concrete ai suoi “attori” può garantire un flusso di prodotti in linea con le esigenze della domanda ed evitare squilibri produttivi ed economici che favoriscono importazioni eccessive.
Fabrizio Piva
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