Il bacino del Po è un hotspot del cambiamento climatico, un’area che si sta riscaldando più rapidamente di altre. Un fenomeno che non ha sorpreso i risicoltori biologici, donne e uomini, che vivono nella Baraggia, territorio in provincia di Vercelli. Sono esattamente sette aziende agricole che coltivano complessivamente 600 ettari a riso, in rotazione con altre colture.
Hanno scelto da oltre vent’anni l’agricoltura biologica e il mutuo aiuto. “Abbiamo sempre sentito il bisogno di confrontarci: per le scelte agronomiche, per la forestazione dei nostri campi, per la condivisione di attrezzature. Ci diamo una mano anche per vendere il riso. Nelle nostre risaie i campi sono oasi piene di vita. Abbiamo scelto di agire sulla biodiversità. Nel tempo abbiamo messo a dimora centinaia di alberi e chilometri di siepi. Le chiome degli alberi e degli arbusti hanno creato un microclima ideale per la crescita di piante erbacee, rifugio ideale per insetti utili, farfalle e piccoli mammiferi. Nidificano tra le piante di riso anche le pavoncelle. In risaia sono riapparse piante che si pensavano estinte come il quadrifoglio acquatico”. Sono le parole di Maria Paola Di Rovasenda Biandrate, che sa bene quanto la semplificazione del paesaggio comporti perdita di biodiversità.
Uno dei loro segreti, che in realtà è uno dei principi dell’agroecologia, è la cura del terreno. In nessuna stagione dell’anno il terreno dei loro campi è nudo. “A fine settembre, dopo la trebbiatura del riso, seminiamo il loietto, pianta che ha il compito di formare un manto verde di protezione” ha spiegato Giuseppe Goio. “Il terreno va protetto dall’irradiazione solare, dal vento, dalla forza della pioggia per poter diventare una grande spugna. L’acqua non si allontana per scorrimento ma penetra lentamente nel terreno fino a raggiungere le falde e nutrirle. Il problema della siccità è grave ma è da tempo che ci prepariamo mettendo a punto strategie che consentono grandi risparmi d’acqua. Quali strategie? La semina del riso, che avverrà verso fine aprile, la facciamo in asciutta. Con le macchine strigliatrici operiamo dei tagli sottili nei campi inerbiti e in ciascuno di questi tagli facciamo cadere il seme. Tardiamo il più possibile la sommersione con l’acqua confidando anche nelle piogge primaverili. Copriremo d’acqua le coltivazioni solo nei mesi estivi. La pacciamatura del terreno – l’erba che ha protetto i campi durante l’inverno – rallenta inoltre l’evapo-traspirazione dell’acqua. Importante è inoltre precisare che un grande risparmio d’acqua rispetto alle coltivazioni convenzionali, è possibile perché il riso lo coltiviamo in rotazione con altre piante: un anno riso, l’anno successivo soia o fagioli, leguminose che arricchiscono il terreno e che non hanno bisogno di essere sommerse nell’acqua”.
Stefano Tiraboschi è l’agronomo dell’azienda di Maria Paola. “La scarsità d’acqua è stato un fenomeno repentino, spiazzante. Abbiamo reagito piantando nuovi alberi, naturalizzando i nostri campi perché è la complessità che si affianca alla resilienza. Faccio un esempio: quest’anno, dopo 5 anni di prove, svolte all’interno di reti di risicoltori biologici della provincia di Vercelli, Novara, Pavia e Milano, semineremo un ettaro di terreno con un miscuglio di risi. Risi di varietà diverse che di uguale hanno solo la dimensione, media nel nostro caso. A supportarci è l’associazione Rete Semi Rurali. Con loro abbiamo fatto molte prove cominciando con la semina di piccole parcelle che abbiamo lavorato manualmente. Abbiamo anche assaggiato il riso raccolto, organizzato veri panel test. Dà forza portare avanti sperimentazioni se si condividono i risultati. La scelta del miscuglio è una scelta che estremizza il concetto di biodiversità, resilienza: i vari semi si distinguono geneticamente e reagiscono alle condizioni climatiche in modo diverso. L’aspetto più sfidante: la capacità nostra di adattamento al cambiamento. Amiamo la nostra terra, il paesaggio che ci circonda. E ci piace fare rete. Abbiamo costituito il Biodistretto del riso biologico del Piemonte e tra i nostri impegni c’è anche fare cultura. La rigenerazione del territorio è ciò che amiamo condividere”.
Amitav Ghosh nel libro “La maledizione della noce moscata” scrive: per quanti sperimentano la Terra come Gaia, ovvero come un’entità vivente e vitale, un paesaggio non prende vita perché gli abitanti condividono un’origine. È piuttosto la vitalità del luogo a creare comunanza fra le persone che vi abitano, quale che sia la loro origine. Mi piace pensare che siamo agricoltori che creano comunanza con le persone e la terra.
Fonte: Il Manifesto