Verso il 2037: il Biobreeding come risposta alla svolta normativa UE del biologico

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Nel settore biologico si parla sempre più spesso di autonomia, resilienza e adattamento locale. Ma quando si guarda alla base di ogni filiera – il seme – ci si scontra con una realtà ancora poco adatta al biologico. La gran parte delle sementi disponibili oggi sul mercato nasce infatti per l’agricoltura convenzionale, pensata per funzionare con input esterni come pesticidi e fertilizzanti. Il rischio è di coltivare “in biologico” con strumenti non coerenti. Il Biobreeding si propone come una risposta concreta e sistemica a questa contraddizione.

Cos’è davvero il Biobreeding

Parliamo di una pratica di miglioramento genetico non invasivo, basata su incroci naturali tra varietà della stessa specie, condotti in campo e in regime biologico. Nessuna manipolazione in laboratorio, nessun intervento diretto sul DNA. Solo osservazione, selezione e adattamento, condotti congiuntamente da agricoltori e ricercatori.

È un metodo che coniuga i saperi agricoli tradizionali con le competenze scientifiche, attraverso percorsi partecipativi di selezione varietale. L’obiettivo è chiaro: ottenere sementi resilienti, adattate al territorio e davvero adatte al biologico.

Una questione urgente: il contesto normativo

Chi opera nel biologico deve già guardare al futuro: dal 1° gennaio 2037, con l’entrata in vigore piena del Regolamento (UE) 2018/848, non sarà più possibile utilizzare sementi convenzionali nemmeno se non trattate. Il sistema delle deroghe, che fino ad ora ha garantito una certa flessibilità, verrà meno. Da quel momento, sarà obbligatorio usare solo materiale sementiero biologico.

Questo impone una riflessione urgente: il settore ha sementi biologiche sufficienti, adattate e disponibili per affrontare questa transizione? In molti casi la risposta è no. Ecco perché strumenti come il Biobreeding diventano centrali.

Biobreeding ≠ OGM ≠ NGT

È fondamentale chiarire cosa non è il Biobreeding: non è OGM e non è NGT (Nuove Tecniche Genomiche). Mentre le NGT – come CRISPR – intervengono direttamente sul genoma riscrivendo tratti di DNA, il Biobreeding si basa solo su incroci naturali e sul rispetto del ciclo riproduttivo delle piante.

È un miglioramento genetico “classico”, ma aggiornato, strutturato e reso coerente con i principi dell’agricoltura biologica. In questo senso, è anche una scelta politica e culturale, non solo tecnica.

Sfide e prospettive

Naturalmente, ci sono ostacoli. La selezione partecipativa richiede tempi lunghi, investimenti e reti sperimentali locali. Inoltre, molte varietà nate da percorsi di Biobreeding non soddisfano i criteri formali di registrazione varietale, pensati per un’agricoltura standardizzata. Senza un adeguamento normativo, rischiano di restare fuori dal mercato.

Eppure, il valore di queste sementi è alto: sono non brevettabili, più stabili in ambienti bio, e costruite su misura per specifici contesti pedoclimatici. Rappresentano una concreta via d’uscita dalla dipendenza da input esterni e una chiave per l’autonomia genetica delle aziende bio.

Il Biobreeding non è una panacea, ma è una strada già percorribile, che punta sull’osservazione, sulla diversità e sulla collaborazione tra attori della filiera. In un contesto normativo in rapido cambiamento, e con il clima che mette sotto pressione i modelli agricoli tradizionali, è uno strumento strategico per rafforzare la coerenza e la solidità tecnica dell’agricoltura biologica. Non è questione di tornare al passato, ma di dare continuità – in chiave scientifica e condivisa – a un sapere che nasce dalla terra.

La Redazione

Notizie da GreenPlanet

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