Stefano Pignani, direttore di Anabic: “Agli allevatori bio manca la giusta remunerazione”

Stefano Pignani

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La 55esima edizione di Agriumbria, il salone nazionale della zootecnica, agricoltura e alimentazione che si è appena concluso nella grande area espositiva di Umbriafiere a Bastia Umbra, ha radunato ancora una volta il meglio del patrimonio zootecnico italiano.

Nel programma della fiera si sono segnalate le due mostre nazionali dedicate alla razza Chianina e Romagnola curate da Anabic-Associazione nazionale allevatori bovini italiani da carne (ente selezionatore che detiene i libri genealogici di cinque razze bovine italiane autoctone: Marchigiana, Chianina, Maremmana, Romagnola e Podolica, ndr), oltre a una vetrina espositiva di alcuni tra i migliori soggetti di razza Maremmana, Marchigiana e Podolica. Pregiate razze autoctone italiane – tutte allevate nel tratto di dorsale appenninica che va dall’Emilia Romagna fino alla Calabria, e con punte anche in Sicilia – che interpretano al meglio il concetto di allevamento sostenibile, essendo gli animali per la maggior parte tenuti al pascolo brado o semibrado e con molti allevamenti certificati biologici. “È un dato di fatto che le nostre razze si inquadrino in un tipo di allevamento altamente sostenibile – ha detto a GreenPlanet Stefano Pignani, direttore di Anabic – La nostra difficoltà è trasmettere questi valori al grande pubblico, far capire che la nostra non è carne come le altre e quindi vale la pena spendere un po’ di più per portare a tavola una qualità e fattori salutistici che le altre carni non hanno. I nostri capi sono, e quelli biologici ancora di più, altamente salutari e con un basso contenuto di grassi, attorno al 4-5% e qualche razza anche meno, contro altre razze che magari oggi vanno più di moda che contengono anche il 15% di grassi in più. Ma questo messaggio non viene sufficientemente compreso, per questo dobbiamo investire in comunicazione, la nostra maggiore sfida è questa”.

– Ai vostri allevatori manca dunque la giusta remunerazione?

“Purtroppo il prezzo finale non ripaga i maggiori costi e il maggior lavoro di questi allevatori, l’allevamento estensivo costa di più rispetto a quello intensivo, ci vorrebbe maggiore consapevolezza da parte del consumatore sulla alta qualità di questi carni e quindi disponibilità a spendere anche qualcosa in più per averla nella propria dieta”.

– L’allevamento sostenibile e biologico di queste razze è dunque in crisi?

“Si registra una riduzione delle aziende e anche dei capi, il trend non è soddisfacente quando abbiamo invece tutte le possibilità di farle crescere e mantenere così anche un equilibro del territorio. Perdere gli allevamenti nelle zone appenniniche comporta infatti il rischio abbandono e la mancata tutela del territorio. Il consumatore dovrebbe dare più attenzione a queste carni anche per il valore sociale che hanno”.

– Ma le istituzioni vi aiutano?

Il governo ha messo a disposizione dei fondi ma non sono sufficienti e comunque credo che debba essere soprattutto il mercato a dare una risposta forte. Comprare un po’ più carne di qualità alla fine non peserebbe molto sui costi familiari e avrebbe invece una forte incidenza positiva sia per la famiglia che il territorio”.

– Avete provato a fare dei discorsi di collaborazione con la GDO?

“ Nella GDO queste carni ci sono, ma alla carne autoctona italiana non viene dato abbastanza risalto, e soprattutto differenziazione, rispetto a quella che viene da altre parti del mondo”.

– Allevamenti sostenibili significa anche meno emissioni?

“Premetto che l’allevamento bovino nel suo complesso non è un protagonista negativo delle emissioni di Co2 come invece viene falsamente asserito. Dati ufficiali Ispra dicono che tutto l’allevamento incide per circa il 7% sulle emissioni totali di C02 e i nostri allevamenti autoctoni e sostenibili incidono addirittura per lo 0,4%. Non solo emettono molta poca CO2 ma, per il ciclo che richiede la produzione, fra emissione e assorbimento di CO2 prevale addirittura l’assorbimento. Questo però non viene detto forse per interessi ben diversi da quella che è la realtà!”.

– Dalla tecnologia può venire un aiuto agli allevamenti che rappresentate?

“Certamente, quest’anno ad Agriumbria abbiamo presentato dei sistemi informatici elaborati dalla nostra Associazione che aiutano gli allevatori a gestire la genetica delle loro mandrie, quindi la scelta dei tori e gli accoppiamenti. La valorizzazione delle razze che Anabic rappresenta deve sapere coniugare tradizione e legame al territorio con l’innovazione tecnologica, due aspetti divenuti ormai inscindibili perché insieme traducono al meglio quel concetto di sostenibilità di cui sempre più spesso si parla e che non è solo ambientale, ma anche sociale ed economica. Anabic è fortemente impegnata su questo fronte e l’importante evoluzione del suo centro genetico ne è la testimonianza più evidente”.

Cristina Latessa

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