Ancora una volta chi si misura con una produzione agroalimentare da reddito ma intende essere sempre più un propulsore di produzioni biologiche e sostenibili e lo fa con grande attenzione al rispetto delle regole, anzi al loro miglioramento, è stato sotto attacco. È successo ai produttori di mele dell’Alto Adige e, in particolare, della Val Venosta, attaccati in alcuni articoli prodotti nei mesi scorsi in Germania da giornalisti tedeschi e ripresi la settimana scorsa in Italia dall’Internazionale.
Chi conosce e ama la Val Venosta è rimasto certamente colpito da tanto scalpore. Ma cerchiamo di puntualizzare. La frutticoltura non solo in Alto Adige ma in tutta Europa segue le regole dettate dall’Unione Europea in tema di difesa dell’ambiente e di tutela del consumatore e della sua salute. In Val Venosta, da anni ormai, si è andati ben oltre i parametri dettati dell’UE e si è sviluppata una frutticoltura di avanguardia non solo in termini produttivi e dunque di sostenibilità economica, ma anche e soprattutto di sostenibilità ambientale e sociale. L’Alto Adige è stato il primo comprensorio in Europa ad introdurre la produzione integrata delle mele, dandosi dalla fine degli Ottanta un rigido protocollo che ha segnato la fine della melicoltura convenzionale in tutta la regione. In Val Venosta poi, si è sviluppata la produzione biologica delle mele come in nessun’altra area d’Europa tanto che ancora oggi si può affermare che la Val Venosta è la prima produttrice di mele bio d’Europa e una delle prime al mondo.
Le azioni a difesa dell’ambiente si basano su una strategia di lungo periodo (il progetto “sustainapple”) e si sono affinate sempre più, con team di lavoro specializzati, e vanno dalla tutela delle api e di altri insetti importanti per la biodiversità all’applicazione di speciali tecniche naturali per la salute del terreno dei meleti.
Certo, da una posizione radicale tutto può essere messo in discussione, ma occorre prendere coscienza del fatto che proprio la Val Venosta ha sviluppato una melicoltura consapevole che difficilmente si riscontra in altre parti d’Italia, d’Europa e del mondo. Le posizioni più radicali, anche se debbono comunque essere prese in considerazione per fare sempre di più e di meglio, debbono fare i conti con la realtà se non vogliamo fare un salto nel vuoto.
Se esistessero strumenti alternativi ai fitofarmaci consentiti, che attualmente garantiscono la difesa dei meleti da parassiti e malattie, i produttori sarebbero i primi a beneficiarne. L’indirizzo prevalente in tutta la regione e in Val Venosta in particolare è di fare dei fitofarmaci l’utilizzo minimo indispensabile, aiutati anche da condizioni climatiche ottimali per la coltivazione del melo che permettono l’esecuzione di un numero di trattamenti inferiore rispetto ad altri comprensori melicoli. Inoltre il 35% delle sostanze attive registrate per l’impiego in Italia qui non vengono utilizzate.
I dati pubblicati in Germania e ripresi la settimana scorsa dalla rivista “Internazionale” – come ha accuratamente verificato Anna Oberkofler del Consorzio Mela Alto Adige – risalgono al 2017, sono quindi datati; inoltre si riferiscono a un campione minuscolo di produttori e di conseguenza non possono essere considerati rappresentativi della realtà altoatesina. Nel 2017, il numero effettivo di trattamenti eseguito dai produttori dell’intera Val Venosta è risultato pari, rispettivamente, a 21 per la produzione biologica (ovviamente con sostanze specifiche consentite per il bio) e a 20 per la produzione integrata dello standard Agrios.
La melicoltura altoatesina è un obiettivo sbagliato se si vogliono attaccare le regole vigenti per il sistema produttivo della frutta, perché l’Alto Adige e la Val Venosta sono più avanti in termini di qualità complessiva, salvaguardia della natura, rispetto del consumatore e della sua salute. Quando, invece dei truffatori, chi lavora bene è sotto attacco vuol dire che c’è qualcosa che non funziona.
Antonio Felice