Il settore biologico ha salutato con soddisfazione la pubblicazione, a fine 2023, del Piano d’Azione Nazionale 2024-26 ad esso dedicato ed il riparto dei fondi che per il 2024 vede impegnata una somma superiore a 6,7 milioni di euro.
Il piano, in estrema sintesi, è composto di azioni volte a sviluppare il mercato, a migliorare le condizioni di produzione, affinché il settore sia più competitivo e sostenibile, e a rafforzare l’organizzazione del sistema produttivo. Ancora una volta, però, ad un’attenta lettura emerge in alcune azioni un sentimento misto di diffidenza e di inadeguatezza, che poi è quello che da alcuni anni accompagna l’approccio nazional-politico-burocratico verso il settore e che, in buona parte, ne ha limitato lo sviluppo, sia sul versante produttivo che su quello del consumo.
Insistere su un logo bio nazionale incentrato sull’origine delle materie prime e su regole nazionali più restrittive, quali l’avvicendamento colturale e la soglia di decertificazione per i residui di sostanze attive non ammesse (> 0,01 ppm per sostanza), rischia di rendere meno competitivo il biologico italiano e di favorire altri sistemi produttivi. Il nostro biologico non ha certo problemi di riconoscibilità nel mondo, visto che secondo Nomisma quasi il 40% del nostro volume d’affari viene esportato. Si aggiunga che saremmo l’unico Paese UE ad avere un logo pubblico incentrato sull’origine delle materie prime quando già il Reg 848/2018 prevede la possibilità che, in caso di totalità delle materie prime di origine italiana, si possa indicare l’origine “Italia” sotto il logo UE. Questo, inoltre, potrebbe configurare una limitazione alla libera circolazione delle merci in ambito UE, in quanto non garantirebbe libero accesso al marchio per tutti gli operatori operanti in tale ambito geografico che lo desiderassero. Motivo per cui tutti gli altri loghi nazionali non si reggono su tale vincolo ed anche i nostri prodotti possono fregiarsi del logo tedesco “biosiegel” o dell’analogo francese “AB France”.
Nell’azione 4.3 (sviluppo zootecnia ed acquacoltura) dell’asse 2 del piano, lo stesso recita testualmente: “I consumatori mostrano grande preoccupazione sulla veridicità della certificazione biologica e sulla possibilità di incorrere in frodi. Per eliminare il rischio bisognerebbe basarsi su analisi che siano in grado di confermare l’autenticità dei prodotti” . É a dir poco preoccupante che l’Autorità competente (il MASAF) affermi questo. Il biologico italiano, visti i dati di ICQRF e la quota in export, non è certo fonte di frodi e non si dovrebbe, perlomeno in documenti ufficiali, alimentare il dubbio nel consumatore; esattamente il contrario di ciò che il piano si propone. Ancor più strano è che si neghi l’utilità del “controllo di processo” e che il tutto si debba limitare ad una prova analitica; poco comprensibile è che cosa intenda l’estensore per “autenticità”. Prima di questo passaggio si afferma che molti prodotti zootecnici rientrano fra i prodotti DOP e IGP e che a livello di disciplinari vi è contrasto fra queste regole e quelle della certificazione biologica: sorprendente se fosse vero! Rimanendo nello stesso capitolo possiamo leggere: “A livello nazionale non sono molti gli allevamenti biologici che utilizzano il pascolo come quota consistente della razione quotidiana”. Anche in questo passaggio si ingenera confusione poiché il Reg 848 definisce modalità e limiti ben precisi sulle specie animali che devono ricorrere al pascolo e gli allevatori italiani certificati rispettano tali norme. Se il MASAF ha altri elementi intervenga con il suo ente di vigilanza.
Invece, a proposito di acquacoltura, si afferma testualmente che “la GDO, con l’obiettivo di fidelizzare la propria clientela, propone per i prodotti di acquacoltura i propri marchi, con i quali il marchio biologico potrebbe andare in concorrenza”. A chi ha scritto ciò forse sfugge che in Italia, secondo gli ultimi dati pubblicati a Marca, il 47% dei prodotti biologici venduti dalla GDO sono a marchio del distributore. Pertanto se il piano si propone di aumentare i consumi di biologico, come si spera, si dovrebbe cercare di trovare elementi e spunti di collaborazione con la GDO per “riequilibrare” i rapporti di filiera e non certo di indicarla come elemento di freno. Tema, quello della filiera, che troviamo nel capitolo dedicato alla costruzione di organizzazioni interprofessionali, accordi quadro ed intese di filiera che purtroppo sono più funzionali alle varie “consorterie” presenti nel settore che ad una reale volontà di riequilibrio dei pesi e dei rapporti nelle filiere e su cui già siamo intervenuti lo scorso anno.
Abbastanza curioso anche che il nostro Paese abbia chiesto in ambito UE, per la certificazione di gruppo, che la capogruppo non abbia personalità giuridica, come recita il Reg 848/2018, di fatto deresponsabilizzando un soggetto in capo al quale la normativa europea pone obblighi e vincoli ben precisi e critici per la garanzia verso mercato e consumatori.
Nulla da osservare per gli altri capitoli dedicati alla cooperazione, ai biodistretti e agli aspetti connessi al miglioramento delle condizioni di produzione.
Il piano si compone di azioni e di obiettivi, ma speriamo in strumenti che, al di là del “compitino” attuale, ponga il biologico quale paradigma della sostenibilità.
Fabrizio Piva
Piano d’Azione Nazionale, un preoccupante compitino
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Il settore biologico ha salutato con soddisfazione la pubblicazione, a fine 2023, del Piano d’Azione Nazionale 2024-26 ad esso dedicato ed il riparto dei fondi che per il 2024 vede impegnata una somma superiore a 6,7 milioni di euro.
Il piano, in estrema sintesi, è composto di azioni volte a sviluppare il mercato, a migliorare le condizioni di produzione, affinché il settore sia più competitivo e sostenibile, e a rafforzare l’organizzazione del sistema produttivo. Ancora una volta, però, ad un’attenta lettura emerge in alcune azioni un sentimento misto di diffidenza e di inadeguatezza, che poi è quello che da alcuni anni accompagna l’approccio nazional-politico-burocratico verso il settore e che, in buona parte, ne ha limitato lo sviluppo, sia sul versante produttivo che su quello del consumo.
Insistere su un logo bio nazionale incentrato sull’origine delle materie prime e su regole nazionali più restrittive, quali l’avvicendamento colturale e la soglia di decertificazione per i residui di sostanze attive non ammesse (> 0,01 ppm per sostanza), rischia di rendere meno competitivo il biologico italiano e di favorire altri sistemi produttivi. Il nostro biologico non ha certo problemi di riconoscibilità nel mondo, visto che secondo Nomisma quasi il 40% del nostro volume d’affari viene esportato. Si aggiunga che saremmo l’unico Paese UE ad avere un logo pubblico incentrato sull’origine delle materie prime quando già il Reg 848/2018 prevede la possibilità che, in caso di totalità delle materie prime di origine italiana, si possa indicare l’origine “Italia” sotto il logo UE. Questo, inoltre, potrebbe configurare una limitazione alla libera circolazione delle merci in ambito UE, in quanto non garantirebbe libero accesso al marchio per tutti gli operatori operanti in tale ambito geografico che lo desiderassero. Motivo per cui tutti gli altri loghi nazionali non si reggono su tale vincolo ed anche i nostri prodotti possono fregiarsi del logo tedesco “biosiegel” o dell’analogo francese “AB France”.
Nell’azione 4.3 (sviluppo zootecnia ed acquacoltura) dell’asse 2 del piano, lo stesso recita testualmente: “I consumatori mostrano grande preoccupazione sulla veridicità della certificazione biologica e sulla possibilità di incorrere in frodi. Per eliminare il rischio bisognerebbe basarsi su analisi che siano in grado di confermare l’autenticità dei prodotti” . É a dir poco preoccupante che l’Autorità competente (il MASAF) affermi questo. Il biologico italiano, visti i dati di ICQRF e la quota in export, non è certo fonte di frodi e non si dovrebbe, perlomeno in documenti ufficiali, alimentare il dubbio nel consumatore; esattamente il contrario di ciò che il piano si propone. Ancor più strano è che si neghi l’utilità del “controllo di processo” e che il tutto si debba limitare ad una prova analitica; poco comprensibile è che cosa intenda l’estensore per “autenticità”. Prima di questo passaggio si afferma che molti prodotti zootecnici rientrano fra i prodotti DOP e IGP e che a livello di disciplinari vi è contrasto fra queste regole e quelle della certificazione biologica: sorprendente se fosse vero! Rimanendo nello stesso capitolo possiamo leggere: “A livello nazionale non sono molti gli allevamenti biologici che utilizzano il pascolo come quota consistente della razione quotidiana”. Anche in questo passaggio si ingenera confusione poiché il Reg 848 definisce modalità e limiti ben precisi sulle specie animali che devono ricorrere al pascolo e gli allevatori italiani certificati rispettano tali norme. Se il MASAF ha altri elementi intervenga con il suo ente di vigilanza.
Invece, a proposito di acquacoltura, si afferma testualmente che “la GDO, con l’obiettivo di fidelizzare la propria clientela, propone per i prodotti di acquacoltura i propri marchi, con i quali il marchio biologico potrebbe andare in concorrenza”. A chi ha scritto ciò forse sfugge che in Italia, secondo gli ultimi dati pubblicati a Marca, il 47% dei prodotti biologici venduti dalla GDO sono a marchio del distributore. Pertanto se il piano si propone di aumentare i consumi di biologico, come si spera, si dovrebbe cercare di trovare elementi e spunti di collaborazione con la GDO per “riequilibrare” i rapporti di filiera e non certo di indicarla come elemento di freno. Tema, quello della filiera, che troviamo nel capitolo dedicato alla costruzione di organizzazioni interprofessionali, accordi quadro ed intese di filiera che purtroppo sono più funzionali alle varie “consorterie” presenti nel settore che ad una reale volontà di riequilibrio dei pesi e dei rapporti nelle filiere e su cui già siamo intervenuti lo scorso anno.
Abbastanza curioso anche che il nostro Paese abbia chiesto in ambito UE, per la certificazione di gruppo, che la capogruppo non abbia personalità giuridica, come recita il Reg 848/2018, di fatto deresponsabilizzando un soggetto in capo al quale la normativa europea pone obblighi e vincoli ben precisi e critici per la garanzia verso mercato e consumatori.
Nulla da osservare per gli altri capitoli dedicati alla cooperazione, ai biodistretti e agli aspetti connessi al miglioramento delle condizioni di produzione.
Il piano si compone di azioni e di obiettivi, ma speriamo in strumenti che, al di là del “compitino” attuale, ponga il biologico quale paradigma della sostenibilità.
Fabrizio Piva
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