Occorre investire di più nel biologico invertendo la direzione intrapresa negli ultimi due anni

Fabrizio Piva

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Il webinar organizzato da Greenplanet lo scorso 4 aprile, dedicato al ruolo della Distribuzione nella diffusione dei prodotti biologici (vedi news), ci offre l’occasione di riflettere sul tema mettendo in luce i limiti e le opportunità in un periodo in cui sarebbe importante ampliare la frequenza d’uso dei prodotti biologici da parte di una vasta platea di consumatori, ancora oggi troppo occasionale.

Quando ci riferiamo alla Distribuzione non possiamo dimenticare che ci rivolgiamo ad un settore composto di realtà molto diversificate fra loro; accanto alla Distribuzione Organizzata (DO), fatta di super, iper e discount, troviamo lo specializzato bio, quello di settore (es. fruttivendolo), il mercato rionale e locale, la vendita diretta, il distributore che si rivolge al “food service” (ristorazione, catering, etc.) e molte altre tipologie. Se ci riferiamo, però, alla DO non possiamo tralasciare che, secondo dati ADM-TEHA, l’80,9% dei consumi alimentari interni è appannaggio di questo segmento e nella Private Label un prodotto biologico su due è a marchio del distributore (MDD). Per diffondere meglio il biologico non si può quindi prescindere da tale segmento. Negli ultimi anni, però, i consumi nazionali di bio fanno fatica a staccarsi dal 2,9-3,0% del totale dei consumi alimentari nella DO e dal 4%, se consideriamo l’insieme dei consumi anche in altri segmenti distributivi con un consumo pro capite pari a 66 Euro (dati Fibl 2023). Francia e Germania ci staccano con un mercato pari a circa 3 volte il nostro, un’incidenza dei consumi rispettivamente del 5,6% e del 6,3% ed un consumo pro capite di 176 e 191 Euro.

Cosa e come fare per recuperare quote di mercato? La distribuzione non è certo secondaria ma deve tornare a credere nel biologico; se vi ha creduto negli ultimi 15-20 anni ora notiamo un certo raffreddamento sia nella strategia distributiva che negli approcci culturali.

È emerso come il consumatore voglia trovare nel biologico la stessa segmentazione presente nel convenzionale, mentre invece riscontra molte meno referenze di un tempo perché il bio ha una minore rotazione. Alla stregua di “un cane che si morde la coda”: meno bio facciamo trovare sugli scaffali e meno sarà la sua rotazione. Sul versante culturale la distribuzione ha investito sul “residuo zero”, sul “vertical farming”, sulla redazione di bilanci di responsabilità sociali in cui la sostenibilità è stata parcellizzata in termini di imballaggio, risparmio energetico, “gender gap”, riconoscimento “benefit” ed altro con una logica autoreferenziale verso l’azienda distributrice e meno rivolta verso la filiera coinvolgendo, come si potrebbe fare con il biologico, tutti gli operatori che stanno a monte. Con questo non si intende affermare che tali interventi non sono utili ma l’efficacia è di gran lunga inferiore rispetto al coinvolgimento di un’intera filiera, soprattutto quando, in alcuni casi, le misure influiscono più sull’estetica che sulla sostanza dei processi. Un cenno particolare lo merita il “residuo zero” che nella denominazione scimmiotta un concetto caro al biologico quando, invece, si tratta di un prodotto convenzionale e fa una concorrenza sleale al bio come emerso in alcune ricerche di mercato.

Sul piano più prettamente economico il prezzo di molte materie prime è diminuito in valore assoluto con un “gap” fra bio e convenzionale ridotto di parecchio e tale talvolta da non giustificare l’applicazione del metodo biologico, “gap” che non ha avuto lo stesso andamento per i prezzi dei prodotti finiti. Questo rischia di scoraggiare molti imprenditori bio a rimanere nel settore, complice anche le innumerevoli complessità burocratiche che nel nostro Paese costituiscono delle vere e proprie barriere. Ribadiamo che i dati 2024 presentati a Biofach da parte di Assocertbio testimoniano uno stallo in termini di superficie ed operatori ed è il primo anno dopo tanti di continua crescita.

Riteniamo, inoltre, che il continuo richiamo alla maggiore salubrità dei prodotti biologici rischi di cozzare contro il principio comunitario della food safety secondo il quale tutti i prodotti alimentari devono essere sicuri. Meglio sarebbe focalizzare l’attenzione sul contenuto ambientale dei prodotti biologici in quanto è assodato e compare nei primi posti delle ricerche di mercato che uno – se non il principale – motivo di acquisto sta nella maggiore salubrità.

Sempre in tema di ambiente, non aiutano certamente i continui e gratuiti attacchi verso il Green Deal da parte di politici, cittadini ed un’opinione pubblica che neppure talvolta ne conosce i contenuti. Invece di essere percepito come strumento di maggiore competitività, almeno per i prodotti agroalimentari apprezzati su tutti i mercati, il Green Deal viene descritto come il peggior strumento competitivo quando le principali barriere sono poste dai singoli Stati e non tanto dall’UE; il biologico in tal senso ne è un esempio illuminante. In questo modo si mina la propensione del consumatore verso un consumo consapevole e verso acquisti verdi fra cui rientrano i prodotti biologici.

Incoraggiare il consumo dei prodotti biologici equivale a farli trovare negli scaffali con un numero di referenze paragonabili a quelle riscontrabili negli analoghi convenzionali. Occorre investire di più nel biologico invertendo la direzione intrapresa negli ultimi due anni.

Fabrizio Piva

Notizie da GreenPlanet

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