Logo Bio: da “Arma letale” a “Pallottola spuntata”

Piva

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Abbiamo avuto modo di leggere la bozza di decreto ministeriale con cui il Masaf istituisce il marchio per il biologico italiano ai sensi dell’art. 6 della Legge 9.03.2022 n. 23. Se qualcuno pensava che questa misura, parafrasando qualche titolo cinematografico, potesse rappresentare “un’arma letale” a favore del bio tricolore deve ricredersi e ripiegare sulla “pallottola spuntata”. Il logo bio, sempre secondo quanto riportato nella bozza, si applicherà ai soli prodotti ottenuti con il 100 % di ingredienti di origine agricola nazionali e potrà essere utilizzato da qualsiasi operatore che, nel rispetto del Reg UE 848/2018, ha sede legale e produttiva nell’UE. L’apposizione di detto logo è possibile solo in aggiunta al logo UE con la dicitura “Agricoltura o Acquacoltura Italia”, non può sostituire, sovrapporsi o limitare la visibilità del logo UE così come non può avere dimensioni maggiori di questo. Entrambi i loghi devono essere presentati in modo graficamente compatibile e disposti entro lo stesso campo visivo dell’etichetta garantendo distinzione e riconoscibilità di ciascun elemento.

Come più volte abbiamo argomentato, quello che doveva essere uno dei pilastri (!?) di politica agraria a favore del Bio nazionale è uno strumento che nulla aggiunge in più rispetto a quello che già oggi la normativa UE garantisce se non qualche vincolo burocratico. Infatti, l’operatore che intende utilizzarlo deve darne comunicazione tramite una specifica richiesta al SIB/SIAN e dopo trenta giorni può, senza diniego e con l’istituto del silenzio/assenso, procedere al suo utilizzo. La burocrazia aumenta anche perché i controlli sono delegati all’ICQRF e non agli organismi di certificazione che verificano l’intero processo inclusa l’apposizione del logo UE. Da questo punto di vista il tutto appare anche comico perché il logo UE verrebbe controllato dall’organismo di certificazione delegato ed il logo nazionale, utilizzabile sulla base degli stessi presupposti del logo UE, da ICQRF. Consigliamo vivamente che i controlli siano a cura degli organismi di certificazione così come l’intero processo; se il problema deriva dai costi di certificazione, per gli organismi la verifica non comporta un costo aggiuntivo considerando che già la effettuano per gli stessi motivi ai fini della validazione del logo UE.

Vi è anche un aspetto poco chiaro su come un operatore bio che non opera in Italia possa comunicare la sua volontà di utilizzare il logo nazionale tramite il SIB/SIAN costruito sulla base del biologico nostrano, considerato che tutti gli operatori europei hanno diritto, nel rispetto delle regole, ad usare un logo nazionale dedicato al biologico, pena il mancato rispetto di uno dei principi cardine dell’UE ovvero la libera circolazione delle merci. Solo per citare qualche esempio noto, molti operatori italiani usano il Bio Siegel tedesco o il logo AB francese che, fra l’altro, non hanno particolari vincoli sull’utilizzo di materie prime agricole nazionali.

Il bio italiano è riconosciuto per la sua qualità in tutto il mondo, ne è testimonianza il 40% circa di export intra ed extra-europeo, così come la domanda interna non è condizionata dalla scarsa informazione circa la provenienza delle materie prime agricole. Informazione che viene veicolata dal logo UE e da varie dichiarazioni e segni grafici aggiuntivi. L’Italia ha una grande tradizione manifatturiera con un’industria agroalimentare in grado di esportare prodotti di ottima qualità in tutto il mondo e questo anche per il biologico. L’agroalimentare nazionale ha bisogno di materie prime agricole nostrane ma, almeno per quanto riguarda il biologico, molto spesso non le trova perché non ci sono. La loro disponibilità non è tanto legata alle fortune di un marchio ma a condizioni strutturali che consentono la realizzazione di un processo produttivo. Occorre investire in tecniche produttive sostenibili più efficaci, rendere economicamente più efficiente la logistica, pianificare campagne promozionali a favore del biologico ricorrendo ad agenzie e soggetti competenti in materia, indirizzare gli incentivi pubblici verso la produzione e non la rendita, creare le condizioni per una riduzione dell’età media degli agricoltori e, soprattutto, impostare una politica agraria che tenga conto del cambiamento climatico. La promozione del biologico e la sottovalutazione delle conseguenze del cambiamento climatico non possono stare insieme, non è un atteggiamento credibile e non sarà un marchio a risolvere questo dilemma, più nazionale che europeo.

Il biologico nasce nell’alveo di uno spirito mondialista ed internazionalista in cui le barriere ed i confini non sono un valore che gli appartiene. La tensione verso un’ambiente più pulito, più salubre, verso prodotti “buoni” e giusti non trova nutrimento nella cultura dei confini, delle barriere, dei muri, in un termine del nazionalismo. Già alla fine degli anni ’90 del secolo scorso ci si chiedeva come trovare le “giuste” equivalenze con la normativa UE al fine di favorire la crescita del settore sia dentro che fuori l’UE e non tanto come difendere il nostro “fortino del bio”.

È deludente assistere a come associazioni e realtà appartenenti a questo mondo plaudano all’adozione di una “cultura” che crea separazione e non una proficua unione.

Fabrizio Piva

Notizie da GreenPlanet

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