Il Green Deal rischia di rimanere un progetto sulla carta per quanto riguarda la zootecnia biologica. Il caso Fileni, con buona pace di tutti quelli che hanno fomentato il tritacarne mediatico ai danni di un’azienda che ha una solida reputazione sul mercato, in realtà è stato il pretesto per scoperchiare il vaso di Pandora.
Il diritto di replica che l’azienda marchigiana ha deciso di esercitare attraverso un’intervista esclusiva per GreenPlanet (vedi news) ha scatenato un dibattito molto acceso tra i player (e non), che ha lasciato non pochi aspri strascichi anche sui social della nostra webzine.
Per tagliare la testa al toro, ci siamo rivolti ad uno zootecnico di certa fama, Marcello Volanti, uno dei massimi esperti di zootecnia biologica in Italia, nonché uno dei pionieri in Italia. Ha un’esperienza sul campo di venticinque anni, durante i quali ha guidato la conversione al biologico di oltre cento allevamenti. Ha contribuito a scrivere il disciplinare biologico di Federbio e dell’insegna specializzata NaturaSì, che ha tra i suoi fornitori le aziende più importanti del biologico italiano ed estero.
Collabora con la Rete Sociale Humus per la Bioagricoltura italiana che si richiama ai principi ed ai valori dell’agricoltura biologica sanciti dall’Assemblea Generale IFOAM di Adelaide (AUS) del 2005. In questo contesto sta contribuendo ad implementare un regolamento che si doti di principi assolutamente inderogabili.
– Volanti, ha senso parlare di zootecnia biologica?
“La domanda non è banale. Per me ha assolutamente senso perché bisogna pensare che la strada verso la sostenibilità di tutti i nostri settori produttivi è sia inevitabile oltre che possibile. Sono fermamente convinto che il metodo biologico è incredibile ed è assolutamente applicabile anche alla zootecnia. Tuttavia bisogna fare dei distinguo”.
– Quali?
“Un conto è la certificazione biologica e un conto sono le buone pratiche agricole”.
– Potrebbe essere più chiaro?
“Per quanto riguarda le pratiche agricole, le faccio un esempio. Bisognerebbe diversificare le razze che vengono allevate per il convenzionale da quelle allevate per il bio perché hanno genetiche diverse proprio per la capacità di adattarsi alla zootecnia organica e renderla sostenibile. È un po’ lo stesso concetto che si applica alle piante e alle varietà più adatte alla coltivazione in bio. Questa differenziazione ad oggi non si fa né nessuna norma o semplice indicazione specifica quali razze siano più adatte all’allevamento biologico. Se una vacca, ad esempio, di razza Frisona fa 40 litri di latte è scontato che dietro quell’animale ci sia un sistema produttivo che la chiude. Il biologico dovrebbe presupporre un utilizzo di razze specializzate e meno performanti”.
– Come rendere la zootecnia biologica sostenibile anche economicamente?
“Le razze più vocate per il bio e allevate secondo i quei principi è vero che hanno performance inferiori del 20-30%, ma poi permettono di risparmiare su tutti gli input a cominciare dai medicinali e dalle spese veterinarie. Senza considerare che poi vivono anche più a lungo”.
– In questo senso, quanto tempo si impiega ad ammortizzare l’investimento di partenza di un allevamento bio?
“Dipende dalle razze e dal know how che c’è in azienda. In ogni caso minimo cinque anni dall’inizio del processo di conversione. Le ribadisco con convinzione: si può essere competitivi anche facendo biologico”.
– E per quanto riguarda l’altro aspetto che mi ha segnalato in premessa, ossia le certificazioni?
“Qui si apre una parentesi molto grande perché in questo passaggio si potrebbe creare il terreno paludoso che potrebbe condurre alle frodi di mercato”.
– Possono esserci alla base delle incongruenze legislative, non solo nella struttura normativa europea della strategia Farm to Fork, ma anche nel regolamento europeo per il biologico?
“Conosco bene quel regolamento e condivido pienamente tutti i principi e i ‘considerando’ che sono in premessa, che fanno respirare perché definiscono bene cosa sia l’agricoltura biologica. Il problema viene quando la legge traduce queste buone pratiche in burocrazia. Lì si possono creare delle incongruenze che, magari, arrivano anche a cozzare con il settore zootecnico bio”.
– Potrebbe fare qualche esempio?
“Uno dei principi fondanti della zootecnia bio è che l’allevamento senza terra non è convertibile. Gli animali producono deiezioni che arricchiscono il suolo da cui ottengo cibo per animali. In Italia e anche in altri Paesi europei, dove si è creata una sorta di specializzazione tra la zootecnia e l’agricoltura, questo percorso diventa più arduo. Sarebbe utile che si delineassero, almeno nella pratica, nuovi rapporti di collaborazione tra agricoltori e allevatori”.
– Non esiste un divieto di pascolo dell’animale allevato con metodo biologico in terreni non certificati bio?
“Sì ed è anche una normativa inderogabile. Tuttavia, ad esempio, questo divieto non ha senso in montagna. A mille metri non c’è differenza tra un terreno certificato bio e uno non certificato. Eppure anche lì esiste il divieto di pascolo in assenza di una certificazione su un terreno, magari adiacente, dove si potrebbe fare andare gli animali”.
– Queste incongruenze nei fatti disincentivano gli allevatori alle conversioni in bio?
“Effettivamente sto registrando un rallentamento, soprattutto per le piccole aziende agricole”.
Mariangela Latella
maralate@gmail.com