La sentenza della Corte di Giustizia dello scorso 4 ottobre, originata da una domanda di pronuncia proveniente dalla Corte Amministrativa tedesca conseguente ad una causa insorta fra il Land della Baviera e un’azienda di quella regione, giunge a conclusioni che sollevano almeno due ordini di tematiche: il primo di natura tecnico-commerciale ed il secondo di natura più prettamente politica. L’origine della causa si riferiva ad una bevanda vegetale in cui erano stati utilizzati vitamine e gluconato di ferro, ovviamente non biologici, e che comportavano, con buona pace dell’operatore, a non poter considerare bio tale prodotto, ma questo poco importa ai fine della nostra riflessione.
La sentenza, partendo dall’assunto dell’art. 30 del Reg UE 848/2018 che definisce biologico solo un prodotto ottenuto in conformità a tale regolamento, stabilisce che il logo bio dell’UE e, in linea di principio, i termini che fanno riferimento al metodo biologico non possano essere utilizzati per un alimento trasformato – la causa verteva su un alimento preparato – e importato da un Paese terzo in regime di equivalenza ma solo se ottenuto e certificato in regime di conformità. Pertanto, sul piano tecnico-commerciale, quando il Reg 848 sarà a regime le importazioni potranno avvenire solo se i prodotti saranno certificati in conformità a questo ma, ancora fino al 31.12.2026, sarà possibile importare in regime di equivalenza da Paesi terzi riconosciuti equivalenti e, fino al più tardi al 15.10.2025, si potrà importare da Paesi terzi in cui sono gli stessi organismi di certificazione ad essere riconosciuti equivalenti dalla Commissione. Ciò significa che tali prodotti sono ottenuti in coerenza con regole equivalenti al regolamento, e giudicate tali dalla Commissione, e non in conformità al regolamento. La sentenza impone che i prodotti importati da Paesi terzi in regime di equivalenza non possano essere contraddistinti dal logo UE o riportare termini indicanti la biologicità degli stessi.
A questo punto cosa accade per le materie prime ed i prodotti importati ed ancora giacenti nei magazzini delle imprese che devono utilizzarli? Cosa comporta l’utilizzo di una siffatta materia prima quale ingrediente in un multiprodotto? Si può ancora considerare biologico il prodotto finito che ne risulta? Come possono le imprese europee sostituire tali prodotti con altri ottenuti in conformità, quando la certificazione di conformità in alcuni Paesi è appena iniziata e per altri il processo non è ancora terminato? Come sarà possibile ottenere determinati prodotti se alcune materie prime sono reperibili solo in alcuni Paesi terzi oggi certificati in equivalenza? Inoltre, essendo per alcuni Paesi il riconoscimento dell’equivalenza reciproco, cosa ne sarà dei nostri prodotti biologici esportati in questi Paesi? Verranno utilizzati come tali e contraddistinti come biologici oppure saranno declassati a convenzionali?
La Corte di Giustizia non poteva giungere a conclusioni differenti visto quanto recita il Reg 848 all’art. 30, in cui si specifica che solo i prodotti ottenuti in conformità a detto regolamento possono recare il logo UE ed i termini riferiti alla produzione biologica. Era almeno necessario, in fase di scrittura del regolamento, tenere presente che per alcuni anni si sarebbe proceduto a certificare ed importare in regime di equivalenza.
Sul piano più prettamente politico, con la fine del principio di equivalenza il concetto di biologico perde quella valenza “mondialista” che l’ha caratterizzato fin dalle origini. Gli standard del biologico sono frutto di organizzazioni internazionali, si veda IFOAM, e sono stati applicati al di là dei confini nazionali per poi essere declinati in seno alle varie legislazioni. L’applicazione del principio di equivalenza, sancito nella legislazione europea con la linea guida CAC/GL 32 del Codex Alimentarius FAO, ha consentito di mantenere la visione sovranazionale e di favorire gli scambi commerciali, premessa per uno sviluppo considerevole per il settore facendo diventare l’UE un esportatore “netto”. L’equivalenza ha, infatti, ridotto la “babele” dei linguaggi normativi e, quindi, la complessità ed i costi derivanti dalle “barriere non tariffarie”.
Di fatto, il principio della “conformità” impone le regole di una nazione o di un’area, l’UE, in tutto il Pianeta; in base a questo principio vedremo come saranno impostati gli accordi commerciali in base all’art. 47 dell’848 ma già l’articolo recita che obiettivi e principi sono uguali a quelli dell’UE. Su queste basi il biologico perde i valori della sovranazionalità e viene categorizzato entro confini geografici; il concetto di “nazione” che secondo alcuni è elemento qualitativo a prescindere dalle regole produttive e non solo di provenienza geografica che l’UE aveva, già con il Reg 834/07, risolto ricorrendo all’indicazione UE/non UE. Tutto ciò comporterà un aumento dei costi di transazione e di certificazione con una ridotta competitività del settore a favore di altri settori produttivi (!!) ed una conseguente riduzione degli scambi commerciali. Questo, però, sembra andare nella direzione auspicata da quelli che definisco “agro-conservatori”, che negli ultimi anni hanno occupato anche alcune organizzazioni del biologico e che bramano di declinare in “salsa sovranista” un settore che fin dall’inizio ha puntato sui valori dell’olismo di un metodo di produzione piuttosto che sui valori della “nazione”.
Fabrizio Piva