In Piemonte il bio cresce meno che nel resto dell’Italia

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In Piemonte si sta assistendo a una frenata delle aziende che decidono di convertirsi alle colture sostenibili. È il dato che emerge dal numero delle domande di finanziamento presentate alla Regione con i nuovi bandi triennali sull’incentivazione dell’agricoltura biologica e biodinamica. Nello specifico, a fronte di 9,3 milioni di euro di contributi stanziati dal Programma di Sviluppo Rurale per l’avviamento di coltivazioni sostenibili, sono pervenute solo 156 richieste per un totale annuo di 1,2 milioni, destinati a diventare 3,7 in tre anni. Restano ancora inutilizzati nelle casse 5,3 milioni di euro, il 151,3%.

Viceversa, sono andati ben oltre il sold-out i fondi per il mantenimento delle colture bio: 22 milioni di euro per cui hanno fatto richiesta ben 1.133 aziende agricole, eccedendo di fatto il fabbisogno triennale a 28,8 milioni.

“Quindi chi fa crescere frutta e ortaggi italiani senza la chimica oggi si trova costretto a ricorrere all’aiuto statale per non finire strozzato dai costi, in una sorta di assalto alla diligenza, mentre chi vorrebbe convertirsi se ne guarda bene. Un po’ come per le rinnovabili o le auto elettriche”, si legge nell’articolo di Andrea Rinaldi edito sull’edizione locale del Corriere della Sera.

I contributi sono fondi cofinanziati sul PSR al 50% dalla UE e al 50% dalla Regione, la stima per il Piemonte sarebbe di 500 euro ad ettaro. “Se non ci fossero questi incentivi sarebbe ancor più complicato portare avanti queste coltivazioni o lo si farebbe in perdita”, analizza Ercole Zuccaro, direttore generale di Confagricoltura Piemonte.

Per esempio contro la peronospera nelle viti basta un trattamento antiparassitario ogni 15 giorni se chimico, invece l’impiego di rame e zolfo, come da dettami biologici, va applicato tutte le volte che piove, ragion per cui aumentano i costi della manodopera, del carburante e di compattamento del suolo. Per eliminare le erbacce nei campi di mais il copione si ripete: o si usano disinfestanti o si tolgono erbacce con la zappa o passando con una multifresa tra un solco e l’altro e anche qui lievitano i costi di manodopera e gasolio.

“Altro capitolo quello delle certificazioni: costano intorno ai 7mila euro l’anno e serve un tecnico che tenga i registri ma la cui consulenza si paga fino a mille euro al mese. Spese che si ammortizzano se il fatturato dell’azienda è importante. Altrimenti il gioco non vale la candela”, sentenzia il quotidiano, che sottolinea: “E questo tenendo a mente che la resa sarà di molto inferiore rispetto a una coltura convenzionale, un handicap che si prova a colmare da un arrotondamento del prezzo dei prodotti al conferimento. E così chi munge latte bio lo rivenderà ad esempio a 50 cent al litro, contro i 30 cent degli altri”.

“Il raccolto è di circa il 20-25% inferiore rispetto al convenzionale, ma ci sono annate in cui il rischio di non raccogliere è molto forte. Possiamo dire che, mediamente, in andata normali, con il metodo biologico si produce circa il 75% rispetto al convenzionale — chiosa Zuccaro sul Corriere —. Ciò che scarseggia, in Piemonte in modo particolare, sono gli utilizzatori–trasformatori–distributori di prodotti biologici. O si lavora per grandi aziende, dove i rapporti di filiera non sempre sono equilibrati, oppure si deve cercare di costruire un una filiera a livello locale, con mille difficoltà”.

Un altro dato fotografa le superfici dedicate. In Piemonte i campi agricoli ricoprono 880.000 ettari, quelli bio sono 50.785 ettari; nel 2010 erano 32.000 ettari. In tutta Italia la superficie a biologico è 1.193.000 ettari ed era di 1.106.000 ettari nel 2010. Il Piemonte insomma cresce meno rispetto alla media italiana. “In 10 anni abbiamo aumentato le aree bio del 58,70% e oggi sul totale sono il 5,8%, ma se entro il 2030, in base agli obiettivi del Green Deal, dobbiamo arrivare al 25%, questo significa aggiungere superfici a un ritmo del 500%, mal contato. Un sogno che rischia di trasformarsi in incubo: come si convincono gli agricoltori a scegliere questo metodo di coltivazione?”, si domanda infine il giornalista del Corriere della Sera.

Fonte: Corriere della Sera

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