Il mercato degli agrumi reggino prova a voltare pagina grazie al bio

Agrumi

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Più di 13mila ettari coltivati, migliaia di aziende coinvolte, oltre tre milioni e mezzo di quintali di agrumi prodotti ogni anno: il comparto agrumicolo – nella provincia di Reggio Calabria, secondo, per numeri, solo alle coltivazioni di olivo – per decenni è stato uno dei settori trainanti dell’economia reggina.

Ma il mercato degli agrumi in provincia di Reggio è un contesto a dir poco difficile, caratterizzato dalla sostanziale incapacità di fare rete tra gli agricoltori e diviso tra produzioni da primo premio, come la “belladonna” di San Giuseppe e il “biondo” di Caulonia, e coltivazioni meno pregiate, frutto di scelte strategiche stravaganti. E sono proprio le arance a fare la voce grossa per volumi di produzione in provincia (9mila ettari), seguite da clementine (2300) mandarini (1500) e bergamotto (1500) vera unicità del territorio, con una zona di produzione certificata che va da Reggio fino a Monasterace lungo tutta la costa jonica.

Crollato nell’ultimo decennio, con ridimensionamenti drammatici (dice il report regionale di Banca d’Italia) che hanno portato il valore della produzione, su scala regionale, dal 32% del 2010 a un misero 18% del decennio successivo, il mercato degli agrumi sta provando a voltare pagina, privilegiando le coltivazioni di qualità e virando decisamente verso il biologico. 

Nello sconfinato universo dei produttori di arance del reggino c’è, infatti, chi è riuscito a voltare pagina, recuperando le eccellenze del passato e provando a riscrivere le regole del mercato.  Come nel caso delle arance “belladonna” di San Giuseppe, un tipo di biondo autoctono tardivo che, unico in provincia, è riuscito a guadagnarsi il certificato di presidio Slowfood.  Coltivata con un disciplinare stringente nella valle del Gallico-Catona, prima periferia di Reggio, questo tipo di arancia dalle caratteristiche particolari è riuscita a ritagliarsi una fetta piccola ma significativa del mercato d’eccellenza.  Quindici, a oggi, gli ettari coltivati da otto coraggiosi produttori che, anziché piegarsi agli aiuti regionali che vengono erogati solo per la piantumazione delle cultivar “sanificate” che il mercato standardizzato richiede, si è rintanato nella tradizione, riscoprendo una pianta coltivata, dice un rapporto preunitario, già dalla seconda metà dell’800.

La coltivazione bio e la certificazione dei diritti dei lavoratori necessari per il protocollo Slowfood incidono al rialzo sui costi di produzione, ma alla fine il prezzo che si riesce a strappare, anche grazie al taglio della filiera che elimina i passaggi intermedi e certifica ogni arancia con un bollino di qualità, sfiora e a volte supera l’euro al kg.  

Un po’ quello che succede pochi chilometri più a sud con il “biondo di Caulonia” che, grazie all’ostinazione di una giovane imprenditrice, Ilaria Campisi, è riuscito a riprendere piede in un territorio in cui viene coltivato almeno dal 1860 – data a cui risale un documento conservato all’Università di Napoli – e che era stato nel tempo abbandonato in favore di varietà meno pregiate ma sorrette da mode passeggere.

Il progetto di “arance in viaggio”, che taglia drasticamente la filiera di distribuzione, e il ferreo disciplinare bio che garantisce la qualità del prodotto finale, consentono ai produttori del biondo di Caulonia di strappare un prezzo vicino all’euro al kg.

Fonte: Il Reggino

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