Ca’ dei Quattro Archi: dal vino bio a quello biodinamico

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Per cercare di capire cosa avviene in un’azienda biologica che sta passando ad una conduzione biodinamica abbiamo intervistato Mauro Mazza, 49 anni, titolare – assieme a sua moglie Rita Golinelli, 37anni, enologa e anima dei processi innovativi – dell’azienda Ca dei Quattro Archi di Imola, nel Bolognese. 

– Quale percorso avete fatto per passare dal vino biologico a quello biodinamico?

‘Siamo partiti dal campo – ci dice Mauro – tutto è nato dalla constatazione che la concimazione con stallatico non funzionava.

Era una botta di energia immediata senza un effetto duraturo, ed alla fine della stagione tutto era come prima. Abbiamo cominciato a pensare alla biodinamica: alla ristrutturazione e rigenerazione dei terreni.

La possibilità di rigenerare il terreno è fondamentale. In agricoltura biodinamica vengono rovesciate alcune asserzioni dell’agricoltura moderna mettendo in discussione la necessità di alcune pratiche agronomiche: arare, arieggiare, erpicare se da un lato permettono una aumento della penetrazione dell’acqua nel terreno dall’altro lo impoveriscono degli elementi presenti nello strato del suolo rimosso, esponendoli agli agenti atmosferici.

Dopo che lo hai impoverito lo devi arricchire nuovamente concimando. Certo se si vogliono ottenere produzioni spinte bisogna arieggiare e dare acqua alle piante.

‘In biodinamica si fa il contrario: se si vogliono ottenere produzioni normali non bisogna toccare nemmeno gli strati superficiali del terreno, dove nei primi quaranta/cinquanta centimetri si svolge una vita tale da dare tutti gli elementi necessari alle piante.

Già trinciavamo in campo tutta l’erba, eccetto sulla fila. Abbiamo smesso di lavorare sulla fila con l’erpice, lasciando tutto inerbito, e abbiamo iniziato a somministrare in campo il cornoletame, il preparato 500 nella denominazione biodinamica, che ha un effetto ricostruttivo sul terreno.

La situazione dell’inerbimento è andata man mano a regolarizzarsi nel giro di quattro/cinque anni, riducendosi gli effetti delle malerbe dominanti e creando un prato omogeneo. Abbiamo da poco iniziato a praticare con successo anche la semina su sodo di Veccia, una leguminosa che trinciata con il manto erboso contribuisce a ristrutturare il terreno, essendo una pianta azoto-fissatrice.

‘L’uso di alcuni preparati, come ad esempio l’Equiseto che preserva ed è un antifungino naturale o i preparati a base di propoli, ci consentono di affrontare le avversità come la Peronospora, non in modo esclusivo ma insieme a prodotti rameici di cui abbiamo ridotto l’uso gradualmente nel tempo. Oggi siamo ad un consumo di circa 3 kg/ ettaro l’anno per i rameici. Escluderne completamente l’uso al momento non è alla nostra portata in questa zona.

Per ridurre la necessità e la quantità dei trattamenti le buone pratiche agronomiche aiutano a mantenere sano il vigneto: gli impianti devono essere scarichi, non troppo vegetati, i grappoli d’uva devono essere gestiti in maniera ottimale nella loro presenza sulla pianta, per evitare la densità e la persistenza di marciumi’.

– Quali sono stati i cambiamenti apportati in cantina?

‘Abbiamo cominciato tre anni fa a pensare alle modifiche da apportare in cantina per superare ostacoli che parevano insormontabili – spiega Mauro – per arrivare a produrre vino senza l’uso di alcun tipo di coadiuvante. Già avevamo abbandonato da subito all’inizio dell’attività, 2003/4, l’uso di pratiche invasive – le chiarifiche – e l’unico intervento portato avanti fino al 2010 è stato l’utilizzo dei lieviti di fermentazione, gradualmente dismesso.

Temevamo fosse difficile farne a meno perché tutti dicono che a certe temperature. durante la fermentazione alcolica i lieviti smettono di funzionare. Confrontandoci con altri viticultori ci è venuta la rassicurazione che con uve perfettamente sane non c’è bisogno di aggiungere i lieviti. E così è stato.

‘Il campo della vinificazione è molto complicato ed i prodotti adoperabili sono tanti. Anche in biologico con l’ultimo disciplinare hanno dato la possibilità di utilizzare una marea di prodotti, certo di origine biologica, però è un disciplinare per la vinificazione, a mio parere, molto permissivo. Toglie un po’ il senso ad un prodotto, il vino biologico, che dovrebbe essere il più integro possibile. In biodinamica non si adopera alcun prodotto nella vinificazione.

‘Una vinificazione tradizionale inizia così: arrivano le uve, vengono pigia-diraspate, passate in pressa e vengono messe in vasca. A volte nella vinificazione in bianco, prima della pressatura viene fatto un enzimaggio per evitare la scomodità della macerazione sulle bucce: Si usano enzimi sintetici che in tre o quattro ore fanno ciò che gli enzimi naturalmente farebbero in una settimana e poi si mette il mosto in vasca.

Per i vini rossi la macerazione sulle bucce è inevitabile. Con i mosti dentro la vasca devi aggiungere i lieviti, che hanno la necessità di essere attivati con gli starter di fermentazione. A volte sono sostanze semplici altre volte sono complessi alimentari, difficili da decifrare. I lieviti sono selezionati perché a 12 o 13 gradi alcolici tutti i testi di microbiologia dicono che muoiono e se si hanno uve di gradazione alcolica superiore, fino a 16 gradi, ci vogliono lieviti selezionati. A quel punto si comincia a lavorare con le chiarifiche, magari il mosto non è pulito, non è come lo si vorrebbe e quindi bisogna chiarificarlo velocemente, si usano sostanze adatte, oppure filtrazioni.

Nella fermentazione malolattica, che serve a conferire le caratteristiche organolettiche, i batteri malolattici esistono in natura ma per guidarla compro i i miei starter di attivazione e la induco con prodotti di sintesi. Alla fine di questo processo abbiamo il vino che non è proprio come lo vorremmo, magari è un po troppo tannico, e si procede con la chiarifica appropriata per togliere asperità.

Tutti questi prodotti, dalla caseina alla colla di pesce, alla bentonite, solo per citarne alcuni, servono per risolvere dei problemi del vino, accelerando le varie fasi della lavorazione, e a costruire il vino “come lo vorremmo”. Si ottiene così un prodotto con una apparente linearità e armonia che garantisce l’omologazione ma sottoposto ad un attento esame finisce per stridere con un criterio di genuinità, avendo un sentore un po artificiale.

I vini tradizionali finiscono per somigliarsi tutti perché vengono ottenuti con questa metodologia. Dalla raccolta del grappolo d’uva alla conservazione in bottiglia non riescono a fare a meno di additivi.

‘Se si hanno uve perfettamente sane e mature per avere un buon vino naturale tutto ciò non serve. E se nei giorni precedenti la vendemmia non ha piovuto e c’è ancora presenza sull’uva dei trattamenti, ad esempio rameici, ci è già successo di passare tra i filari “lavando l’uva” con la botte dell’acqua spruzzando solo acqua per togliere i residui. di rame o zolfo che possono ostacolare l’azione dei lieviti.

Abbiamo fatto quell’anno la fermentazione con uve che arrivavano quasi a 17 gradi con i loro lieviti naturali. Anche la malolattica segue il suo corso naturale con i suoi batteri. Solitamente si fa in primavera, ma se parte durante la vinificazione la facciamo completare.

Nel caso in cui non è partita durante la vinificazione alla fine della fermentazione alcolica manteniamo un po più alta la temperatura delle vasche per permettere ai batteri malolattici di innescarsi. Fino alla bottiglia gli interventi che facciamo sono diversi per i rossi e bianchi per l’acciaio e le botti di legno, ma tutti di natura “meccanica”. L’unica aggiunta di cui non possiamo fare a meno nei nostri vini è l’anidride solforosa. per la conservazione. Nei nostri rossi arriviamo ad un massimo di 50 mg/litro, nei bianchi usiamo fino ad un massimo di 70 mg/litro’.

– I vostri vini sono certificati e sul mercato vi confrontate con i vini cosiddetti ‘naturali’. Cosa pensi di questa situazione?

‘Penso sia la situazione peggiore per valutare qualsiasi cosa – risponde deciso Mauro – perché credo si sia raggiunto il grado ottimale di confusione per non capirci nulla. Ovvero: nel mondo dei “vini naturali” ci sono produttori bravissimi che sicuramente fanno quello che dicono, in mezzo ad una marea di produttori per niente bravi che sfruttano semplicemente il momento commerciale favorevole al vino naturale, per cui per noi consumatori , mi ci metto anch’io tra questi, è molto difficile valutare.

‘Noi pensiamo che la strada maestra sia la certificazione, e lo pensiamo ancora nonostante sia difficile pensare in positivo nella confusione attuale, cambiando cose che non vanno bene: consentire la certificazione ad aziende che hanno produzioni convenzionali e biologiche mi sembra errato; eliminare il cortocircuito che si crea nel momento in cui il controllato paga il controllore, questo è un altro fattore che toglie credibilità, è un nodo da sciogliere; bisognerebbe rafforzare enormemente i controlli eliminando la burocrazia del processo, consentendo una maggior presenza in campo dove un buon agronomo a vista riesce a capire quasi quanto con le analisi, verificando con queste in ultima istanza i dubbi.

‘Ci vorrebbe trasparenza, sburocratizzazione e semplificazione ma siamo andati nella direzione opposta dove il caos regna sovrano. Il vino naturale, se ne parla tanto, ma lo fanno in pochi. Siamo nella giungla più totale dove a prevalere, alla fine, sono le operazioni di marketing di chi se le può permettere economicamente’.

Francesco Diomede

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