«Il metodo biologico garantisce il consumatore perché dà sicurezza rispetto alla non contaminazione dei terreni in cui avviene la produzione». Lo dice con fermezza Riccardo Cozzo, presidente di AssoCertBio, l’associazione che riunisce gli organismi di certificazione del biologico.
Pur non conoscendo i termini della vicenda che ha riguardato la periferia sud di Milano e un’azienda biologica – su cui è in corso un’indagine (vedi news) – punti certi e fermi, riguardo alla sicurezza dei terreni in cui si produce biologicamente, ce ne sono, ed è fondamentale sottolinearli.
“Quando si fa la prima visita in un’area, ci si preoccupa subito di sapere se sono presenti condizioni notorie di inquinamento e, nel caso in cui esitano, non si procede neanche con la raccolta di campioni: è inutile perdere tempo, si chiude il capitolo”, spiega Cozzo.
Invece, nei casi di situazioni “dubbie, quando l’area per la quale ci si sta interessando è, ad esempio, vicina ad altre aree dove è presente traffico veicolare o si ipotizzano nei pressi altre fonti di inquinamento, allora si procede con le analisi del suolo, delle acque ed eventualmente anche dell’aria – aggiunge il presidente di AssoCertBio – Tutto questo viene fatto prima di partire con la conversione; se i valori che si riscontrano sono alti, ci si ferma, sennò si prosegue”.
Perché, “è vero che il biologico è un metodo di produzione e quindi si certifica il metodo, ma è altrettanto vero che il consumatore si aspetta di avere un prodotto che non abbia residui”. E, in questo senso – assicura Cozzo – “Italia e Belgio sono gli unici Paesi nell’Unione europea che prevedano un’indicazione di 0,01 pm come limite di residuo da contaminazione accidentale”, che avviene ad esempio, quando in un terreno vicino si siano usati pesticidi e un po’ di prodotto finisca anche nel terreno biologico. Quindi la garanzia dei prodotti biologici italiani è doppia. 0,01, infatti, è il fattore definito in passato come “indice di inquinamento ambientale”, ovvero, non dovuto ad una pratica agricola.
Ecco perché, in questo contesto, è inimmaginabile anche solo ipotizzare che un prodotto biologico provenga da terreni in cui siano stati scaricati, ad esempio, dei fanghi: “In quei casi neanche si procede con le analisi, non se ne fa nulla e basta”. Nei casi, invece, in cui sorge il dubbio che una contaminazione possa essere arrivata al terreno in cui si vorrebbe produrre con metodo biologico – ribadisce Cozzo – allora si fanno tutte le analisi e le ricerche del caso: acque e suolo.
Importante, poi, per il presidente di AssoCertBio, “non confondere il periodo di conversione verso il biologico con la depurazione”. È vero che talvolta vengono usate le piante per depurare un terreno contaminato: in questi casi si parla di fitodepurazione. Ma “certamente non si tratterà mai di piante che verranno poi usate a livello alimentare”.
Diverso quando terreni che sono già agricoli, in cui si coltiva, vengono trasformati in biologici: “In quei casi possono ovviamente in precedenza essere stati usati dei pesticidi, quelli consentiti dalle norme – spiega il presidente di AssoCertBio – e il periodo di conversione serve, appunto, come dice il termine stesso, a modificare il metodo di coltivazione”.
L’iter, insomma, è molto rigoroso. Cozzo aggiunge un altro elemento: “Anche quando si fa uso di concimazione organica, si ha sempre molta cura; vengono utilizzate deiezioni animali provenienti da animali da latte e non da allevamenti di pollame intensivo. Questo perché negli allevamenti è possibile che vengano utilizzati antibiotici che contengono metalli pesanti”.
Chiara Affronte