NON DIMENTICHIAMO IL VALORE DI UNA NORMATIVA PIÙ SEMPLICE

Fabrizio Piva

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In più occasioni abbiamo sottolineato come nel settore biologico la normativa sia ridondante, poco chiara, contrastante. Non è certo questo il modo per favorire la crescita ed il consolidamento di un settore produttivo. L’intreccio fra normativa nazionale e comunitaria, poi, ha da sempre penalizzato la produzione nazionale nel nome di una supposta superiorità derivante da criteri normativi più rigidi rispetto ad altre normative nazionali. Questo, invece, si è tradotto in un aumento degli oneri burocratici, in un incremento ingiustificato dei costi e in una minore competitività.

Ulteriore occasione di approfondimento in tale direzione è il recente DM del 21.03.2024, dedicato alla designazione del laboratorio nazionale ed ai criteri per il riconoscimento dei laboratori ufficiali; un decreto, frutto dell’art. 11 del D. Lvo 148/2023, che impatta direttamente sulla filiera biologica. Vista la tematica, non si comprende per quale motivo non si sia prodotto un unico decreto che accogliesse anche la questione della soglia di decertificazione (0,01 ppm) come da art. 8 comma 8 dello stesso D. Lvo. Ora il DM 21.03.24, entrato in vigore il giorno successivo, ripropone un giudizio di non conformità basato sul limite di quantificazione pari a  0,01 ppm, sottratta l’incertezza di misura, ed introduce un limite di determinazione pari a 0,003 ppm per ogni sostanza attiva determinata. Il superamento del limite di quantificazione è indice della presenza di una sostanza non ammessa che per effetto del D Lvo 148/23, art. 8 comma 7, ne compromette le caratteristiche biologiche o in conversione.
Di fatto tale decreto pone ulteriori, e a dire il vero ingiustificati e incomprensibili, interrogativi che inutilmente affliggono un settore che dovrebbe spendere le sue energie per scopi, soprattutto in questo periodo, ben più nobili. Non si capisce, ad esempio, per quale motivo sia il laboratorio ad esprimere un giudizio di conformità quando da normativa comunitaria è l’organismo di certificazione ad avere tali responsabilità; tanto più quando tale giudizio debba essere espresso sul processo e non tanto su un prodotto o su un’altra matrice (mezzo tecnico, suolo, parti di pianta etc). Non è chiaro se tale limite di quantificazione debba essere inteso quale soglia di decertificazione, come oggi previsto nel DM 309/2011, oppure se si tratti di un limite oltre il quale far scattare l’indagine ufficiale, o ancora se questa debba avvenire quando il limite di determinazione supera il livello di 0,003 ppm. Indagine che per la normativa comunitaria deve avvenire con qualsiasi quantitativo riscontrato; quest’ultima normativa infatti “sanziona” l’uso o la non efficace messa in atto delle azioni preventive e non la semplice presenza di un residuo non ammesso come avviene nella normativa nazionale, riconfermata peraltro con il D. Lvo 148. In virtù di ciò come si dovrà comportare l’organismo di certificazione in caso di rilievi provenienti da altri Paesi, UE o non, con valori inferiori ai limiti di cui sopra?
In aggiunta, al di là del livello di quantificazione pari a 0,01 ppm, come ci si dovrà comportare in caso di residui di acido fosforoso o fosfonico che ad oggi hanno valori soglia di gran lunga superiori oppure con i falsi positivi, la ftalimmide, il folpet, i ditiocarbammati, il mepiquat o altre situazioni difficilmente standardizzabili? Inoltre, come gestire i fattori di concentrazione o di diluizione dei residui a seguito dei processi produttivi che intervengono concentrando o diluendo le materie prime di base, oggetto di valutazione circa la presenza o meno di sostanze non ammesse?
Non è chiaro, poi, per quale motivo il cosiddetto giudizio di conformità sia riportato in modo così generico per i soli prodotti fitosanitari e non per altre sostanze quali ad esempio gli OGM, i conservanti e altri additivi non ammessi.
Sempre in tema normativo desideriamo porre all’attenzione del settore due aspetti critici, ed inutili, introdotti con il D. L.vo 148/2023: l’intenzionalità degli operatori nel commettere una non conformità e il rating predisposto dall’autorità competente sulla base dei controlli ufficiali. Sull’intenzionalità, criterio non previsto in ambito comunitario, chi la decide e come? Cosa aggiunge alle tipologie di non conformità? Quanti ricorsi provocherà? Per il rating non si capisce cosa aggiunga ai risultati delle attività di controllo e certificazione se non una morbosa forma di curiosità; forse un prodotto biologico ottenuto da un operatore in possesso di un rating basso non è biologico o lo è meno?
Al di là dello specifico tema dei residui, su cui ribadiamo la necessità di togliere qualsiasi soglia o limite e tornare nell’alveo della normativa comunitaria, da queste poche righe è facilmente comprensibile come la normativa, frutto di uno scarso approfondimento e di un insufficiente confronto con le parti se non con i soliti, possa generare più problemi che soluzioni.
Fabrizio Piva

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