L’impatto del bio: Piva replica a ‘Repubblica’

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Fabrizio Piva, amministratore delegato del CCPB di Bologna, commenta l’articolo di Dario Bressanini pubblicato il 26 Aprile sul blog di Repubblica ‘Scienza in cucina’, in cui si prende in esame un recente studio della rivista ‘Nature’.

L’incipit del testo di Nature, riportato da Bressanini all’inizio della sua lunga analisi, a cui si rimanda, dice: ‘Numerosi studi hanno sottolineato la necessità di cambiare profondamente il sistema di produzione di cibo a livello mondiale: l’agricoltura deve rispondere alla doppia sfida di nutrire una popolazione in crescita, con l’aumento della domanda per alimentazioni a base di carne e ricche di calorie, minimizzando allo stesso tempo l’impatto ambientale globale. L’agricoltura biologica – un sistema finalizzato alla produzione di cibo con il minimo danno agli ecosistemi, agli animali e agli esseri umani – viene spesso proposto come una soluzione. I critici tuttavia sostengono che l’agricoltura biologica può avere rese più basse e avrebbe quindi bisogno di più terra per produrre la stessa quantità di cibo delle aziende agricole tradizionali, causando una deforestazione e una perdita di biodiversità più ampia, pregiudicando così i benefici ambientali delle pratiche biologiche’.

‘L’autore – afferma in risposta Fabrizio Piva – ha ragione sul fatto che questi temi non possono essere trattati con livore ideologico; qui non si tratta di esser pro o a favore ma di misurare i risultati. L’agricoltura biologica, paradossalmente, è un’agricoltura ‘nuova’ e ha bisogno di sostegno in termini di ricerca e di sperimentazione. Negli ultimi 20 anni le rese sono aumentate perché è aumentata l’innovazione. Se il biologico vuole competere in materia di sostenibilità (non solo quella ambientale!) deve essere oggetto di maggiore attenzione da parte degli scienziati.

 

Occorre risolvere tematiche che non sono mai state pienamente risolte, fra queste un maggior efficiente utilizzo da parte dei nutrienti, la disponibilità di erbicidi naturali (funghi, batteri, virus, sostanze repellenti naturali, ecc) in grado di eliminare le infestanti che tanto competono con le colture agrarie.

‘Il tema della difesa o della protezione delle colture, uno dei più indagati, deve essere oggetto di maggiore ricerca per capire l’eziologia delle malattie o l’attacco da parte di determinati parassiti animali con l’adozione di insetticidi naturali; molto è stato fatto su questo tema ma moltissimo resta da fare. Maggiori conoscenze sull’utilizzo dell’acqua di irrigazione maggiormente efficace da parte delle piante. Maggiori conoscenze che portino ad adottare rotazioni colturali in grado di esaltare le rese delle colture seminate. Maggiori conoscenze sulle modalità di conservazione delle derrate, questo perché molta produzione non arriva sul mercato in quanto non si riesce a conservare correttamente. L’elenco ovviamente non è esaustivo.

‘Il biologico – afferma ancora il dott. Piva – ha bisogno di maggiore tecnologia, di più ricerca e sperimentazione; passi avanti ne sono stati fatti molti ed il gap in termini di rese fra bio e convenzionale è diminuito enormemente. Lo stesso articolo mette in evidenza come nei Paesi ad economia in fase di sviluppo i gap siano ben più elevati rispetto alle agricolture dei Paesi ad economia sviluppata; questa riduzione è dovuta ad una maggiore conoscenza e ad una incisività maggiore della tecnologia. Sul piano poi della quantità, occorre considerare che nelle economie occidentali all’incirca un 25% del cibo viene buttato: che senso ha immettere input, energia e "petrolio" nei processi produttivi se poi un quarto di quello che abbiamo speso va a finire nel cestino? Forse è preferibile ridurre lo spreco e produrre in un modo maggiormente compatibile con l’ambiente.

‘Il tema comunque rimane, la sfida alimentare è partita e se dobbiamo trarre le maggiori rese produttive da una risorsa scarsa come la terra non possiamo certo ridurne la produttività ricorrendo sempre più ad un uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi in quanto quello che potremmo guadagnare da un’agricoltura maggiormente intensiva lo perderemmo da una progressiva perdita di fertilità dei suoli conseguente a quest’uso massivo’.

(fonte: Lou Del Bello, Ufficio Stampa CCPB)

 

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