Basta una confezione verde per essere sicuri che il nostro shampoo sia naturale? Basta una scritta sulla scatola per stare certi che la crema per il corpo sia bio? Molti consumatori attenti già sospettavano di no; oggi uno studio inglese condotto da Organic Monitor ne dà la certezza. La ricerca è intitolata “Natural Cosmetics Brand Assessment”, e prende in esame 50 prodotti di marca che si definiscono naturali o biologici, analizzandone gli ingredienti e assegnando loro un punteggio in base a criteri scientifici di “naturalità”. I criteri di valutazione indicavano con 9-10 punti le marche certificate biologiche, con 4-7 punti i cosmetici naturali puri, con 3 i cosmetici semi naturali, con 1 quelli convenzionali. Dispiace ma non sorprende scoprire che molti dei cosmetici promossi come naturali o addirittura biologici abbiano ottenuto i punteggi più bassi.
E la truffa ai danni del consumatore è ben orchestrata: non si tratta di vere e proprie bugie, ma di mezze verità. Alcuni marchi promuovevano i loro cosmetici per la pelle come biologici solo perché la formula conteneva oli essenziali bio. Altri mettevano il marchio della certificazione biologica sulla scatola avendo in realtà certificato solo l’ingrediente principale. Alcuni addirittura definivano biologici i cosmetici solo perché alcuni ingredienti erano naturali (e comunque non certificati). Una babele di false etichette, detti e non detti, suggestioni senza riscontro. Così si prende in giro chi compra, si risparmia e si fa bella figura.
Solo qualche anno fa l’ecologia era una nicchia di nessun peso, oggi più che una necessaria caratteristica della prossima generazione di cosmetici, sembra una strategia di marketing per vendere meglio spendendo meno. E una pessima informazione fa il resto. Se per quanto riguarda il comparto alimentare una legge europea del 1991 (il regolamento 2092/91) ha stabilito criteri precisi per distinguere quando un prodotto si può chiamare biologico e quando no, per i cosmetici siamo ancora in alto mare.
“Non c’è niente di illegale – spiega Fabrizio Piva, amministratore delegato di CCPB, organismo di controllo e certificazione che opera prevalentemente nel settore del biologico – semplicemente perché non ci sono leggi. Un prodotto in cui si evidenzi solo una parte certificata è una scorrettezza, anche perché non si sa quanto il singolo ingrediente pesi all’interno della ricetta complessiva”.
Eppure una simile manovra non è punibile a norma di legge. Non si tratta di casi isolati o di sottomarche, il fenomeno del greenwashing in cosmesi è endemico. Anche in Italia abbiamo un caso eclatante, quello dell’arcinota Nivea: “Questa azienda, che è una delle maggiori d’Europa, ha prodotto una linea cosmetica che ha definito biologica – spiega Piva – ma che non ha nessun tipo di certificazione né di standard che permetta di definirla tale. Questo comporta che ognuno possa ‘farsi il biologico in casa’: fenomeno dovuto a una mancanza di ‘visione’ del settore intero, che alla lunga danneggia e toglie credibilità a tutti. Così come nell’alimentare, ci sarebbe bisogno di uno standard pubblico, che garantisca regole minime uguali per tutti”. In questo modo, sintetizza Piva, si arriva ad un ‘Far West del biologico’ che non solo non tutela i consumatori ma limita anche le possibilità di crescita del settore. (Fonte: CCPB Blog)