Il dibattito aperto con l’editoriale della settimana scorsa su filiera bio e distretti bio, da noi considerati due elementi importanti per la crescita del settore, ha raccolto per ora due opinioni autorevoli, l’una di Giovanni Di Costanzo di BioItalia l’altra di Fabrizio Piva del CCPB, con il risultato di un secco 2-0 a favore della filiera.
La sintesi l’abbiamo data nei titoli. Di Costanzo: no ai distretti, sì alla filiera. Piva: no alle riserve indiane, sì alle regole di filiera.
Entrambi riconoscono che il biologico, se vuole crescere nel mercato e difendere la sua produzione, incentivandola, deve stringere i rapporti tra i vari segmenti e quindi i vari protagonisti della filiera, collegando meglio la produzione alla trasformazione e alla distribuzione in un quadro di regole condivise.
Quindi la filiera è considerata strategica, l’elemento-chiave per la crescita complessiva del settore. Non è aria fritta. Creare la filiera significa mettere in campo volontà operative, arrivare a dei patti e infine farli rispettare. Una costruzione non facile e della cui importanza non dubitiamo.
Ma vorremmo spendere una parola sui ‘poveri’ distretti (perdono 2-0) perché ci sembra che su di essi ci sia un ‘misunderstanding’, un’incomprensione di fondo. I distretti certamente non risolvono i problemi di mercato, non sono nemmeno il grimaldello per dare più forza al settore, ma potrebbero significare forse, più che una ‘riserva indiana’, un terreno di sperimentazione, un laboratorio.
Il ‘qui pro quo’ è questo: nessuno è così pazzo da voler confinare il biologico dentro i distretti come in una ‘riserva’ perché sarebbe proprio quello che non si vuole, sarebbe il segno di una sconfitta. Qui tutti vogliamo il contrario. E allora cosa si può intendere in positivo con i distretti bio?
Ma esattamente quello che si intende per i distretti territoriali di ogni tipo. Facciamo un esempio esterno al settore: si producono sedie in tutta Italia e ci mancherebbe altro, sono sedie spesso apprezzate anche all’estero per il loro design italiano, per la cura e la continua ricerca dei materiali eccetera.
Nel mondo, almeno per il momento, nessuno parla di sedie cinesi, che pure si produrranno, e invece sedie italiane si vendono per gli uffici dei grattacieli di Manhattan, per le cucine di case prestigiose di Londra e Parigi, per salotti di ogni tipo e per ogni ceto sociale, e così avanti. Tuttavia, esiste una zona in Italia in cui esiste una particolare specializzazione nella sedia: il ‘distretto della sedia del Friuli’ in cui si trovano fianco a fianco aziende che si curano di imbottiture, di rotelle, di parti metalliche, di falegnameria, di servizi commerciali, di ricerca sul design, aziende che fanno sistema tra loro condividendo rischi e opportunità. Nessuna di queste aziende si sente confinata in una ‘riserva’ né ha obblighi di alcun genere con le aziende vicine, semplicemente cerca di mettere a frutto la vicinanza.
Per il biologico sarebbe diverso, per il biologico il significato del distretto è ben superiore perché il territorio è componente stretta e preziosa della produzione bio, perché l’ambiente, l’energia fondendosi con la produzione potrebbero creare le condizioni per dare vita e sperimentare quella svolta green che è sulla bocca di molti e che lì per ora rimane.
Chiaro che i grandi accordi di filiera guardano oltre e rappresentano un interesse economico prevalente ma perché privarsi di territori specializzati in cui sia possibile pre-costituire condizioni a beneficio di tutti?
Questo parere non pesa sul risultato. Siamo sempre 2-0. Vorremmo solo riaccendere la partita.
Antonio Felice