Biologico e residui, un’altra tegola per il bio italiano

Piva

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In questi ultimi giorni stanno circolando le bozze di DM con cui il MASAF (Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare e delle Foreste) adempie a quanto contemplato all’art. 8 comma 8 del D. Lgs.vo 148 del 6.10.2023, ovvero la promulgazione, entro 12 mesi dall’entrata in vigore di quest’ultimo, di un DM teso ad individuare le misure più opportune per evitare la presenza involontaria di prodotti e sostanze non autorizzate in agricoltura biologica. In pratica un DM che “superi” il DM 309 del 2011 avente ad oggetto le contaminazioni nei prodotti biologici. È un tema su cui siamo intervenuti in più occasioni, nello specifico a fine 2023 suggerendo la necessità di tornare al dettato del Reg UE 848/2018. Temevamo, anzi eravamo quasi certi di essere inascoltati, e leggendo la bozza di DM non possiamo che confermare questo anche se con grave pregiudizio per lo sviluppo del settore bio in questo Paese.

La bozza si fonda sul concetto di “presenza di una sostanza non ammessa su qualsiasi matrice” riprendendone la definizione del DM 567753 del 12.10.23 dedicato ai controlli di laboratorio; di fatto per presenza si intende qualsiasi presenza quantificabile di una sostanza non ammessa sul campione analizzato da parte di un laboratorio ufficiale. In pratica per il biologico viene introdotto il concetto di “tolleranza zero” in quanto in presenza di più di un residuo (ciascuno < 0,01 ppm) di sostanze non ammesse l’integrità del prodotto biologico è sempre compromessa; se, invece, la presenza (< 0,01 ppm) si riferisce ad una sola sostanza attiva l’organismo di certificazione attiva un’indagine ufficiale e qualora la fonte e la causa sono state individuate e sono da considerarsi accidentali e tecnicamente inevitabili il prodotto può essere considerato biologico. Sarà molto difficile per valori di residuo infinitesimale giungere a conoscere fonte e causa di tale residuo con il rischio che molte partite di prodotto siano declassate. Nel documento è prevista anche la presenza di residui di sostanze non ammesse in tracce, ipotizzabili come presenze non quantificabili, su cui non è chiaro se l’organismo di certificazione debba attivare in questi casi un’indagine ufficiale o meno; di certo dovrà tenerne conto nella valutazione del rischio dell’operatore.

Poi vi è il caso del superamento della soglia di 0,01 ppm per ogni sostanza attiva a scopo fitosanitario non ammessa che comporta la compromissione dell’integrità di prodotto biologico e per cui si possono verificare tre situazioni: 

  • nel caso in cui l’LMR, ai sensi del Reg CE 396/2005, sia ≤ 10 mg/kg, vale la soglia di 0,01 ppm;
  • se l’LMR è fra 10 e 100 mg/kg la soglia ≥ 1% dell’LMR;
  • se invece l’LMR è ≥ 100 mg/kg la soglia è ≥ 1 mg/kg.

Rispetto al vigente DM 309 del 2011 la situazione peggiora poiché si introduce il concetto di “tolleranza zero” in presenza di più di un residuo, seppur con valori ≤ 0,01 ppm. Il MASAF non tiene conto della normativa comunitaria che considera non conformità l’utilizzo di sostanze non ammesse e non la mera presenza, così come l’insufficiente applicazione di misure preventive. Neppure considera che, così come è articolata la materia, siamo l’unico paese UE a gestire la presenza di sostanze non ammesse secondo modalità che penalizzano il settore bio nazionale. Nessuno sembra essere a conoscenza che il biologico viene coltivato in luoghi densamente coltivati anche in modo convenzionale e, ad esempio, irrigati con acque superficiali e sotterranee la cui contaminazione interessa oltre il 50% dei campioni delle acque superficiali. Qualcuno “alzerà il sopracciglio” affermando che dall’indagine ufficiale sarà possibile dimostrare questo. Certamente, vi immaginate quanto tempo, quanti campioni, quante perizie e quali costi dovrà sostenere il sistema produttivo per dimostrare l’accidentalità di qualche ppb (parte per miliardo)? Non si capisce, poi, per quale motivo, secondo l’estensore della bozza, le uniche sostanze non ammesse siano i prodotti fitosanitari quando sono centinaia o migliaia le sostanze di sintesi comunque non ammesse nel biologico.

Fa un po’ sorridere che per valori di residuo ≥ 0,01 ppm sia prevista la possibilità di raggiungere valori più elevati per i prodotti fitosanitari con LMR ≥ 10 mg/kg quando sono pochissime le sostanze con tale LMR. In qualsiasi caso non si comprende come possano coesistere, anche solo sul piano concettuale, prodotti biologici in assenza (si ricorda che lo zero tecnico non esiste) di residuo e altri con valori fino a 1 mg/kg.

Nonostante quasi 14 anni di esperienza, ci si concentra sempre più sul prodotto e sempre meno sul processo quando nel biologico è molto più importante quest’ultimo per “educare” e far crescere il sistema produttivo alla luce del rispetto e della conformità normativa. Così si confonde il biologico con il “residuo zero” banalizzando il primo e, concentrandosi sul solo prodotto, si espone sempre più il settore al rischio frode in quanto ciò che traspare è che il prodotto deve essere “pulito” ovvero senza residui. Ciò che, invece, distingue un prodotto biologico da un analogo prodotto convenzionale è la sua storia. 

Sarebbe sufficiente applicare quanto riportato pedissequamente agli artt. 28 e 29 del Reg UE 848/2018 conferendo agli organismi di certificazione ruolo e responsabilità nell’attivare le indagini ufficiali per valutare le motivazioni circa la presenza di sostanze non ammesse indipendentemente da uno o più “valori soglia” e applicare la normativa non solo per i prodotti fitosanitari.

Ancora una volta si aumentano gli oneri burocratici ed i costi a carico del sistema produttivo senza, di fatto, offrire nulla in più al mercato e ai consumatori, riducendo la competitività del settore bio italiano.   

Fabrizio Piva

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