La proposta di trasformare in credito di imposta i costi di controllo e certificazione sostenuti dagli operatori del settore biologico è un errore strategico, oltre che tattico. Parte da presupposti sbagliati e giunge a conclusioni che nuoceranno all’intero settore.
Ritenere che il settore sia gravato di un costo eccessivo, quello di certificazione, che penalizza la competitività della produzione biologica è un errore aritmetico, ma soprattutto di prospettiva. Secondo fonte Nomisma il volume di fatturato biologico nazionale al 2022 si colloca intorno agli 8,4 miliardi di euro, comprendendo sia la domanda interna che quella estera. Il costo di certificazione, stimandolo sugli ultimi fatturati disponibili e depositati dagli organismi di certificazione, incide su tale fatturato per una quota intorno all’1%. Trasformare questo costo nell’elemento che penalizza la competitività del settore è un esercizio iperbolico che rischia di mettere a nudo ben altre cause di debolezza ma non certo quella di un costo che negli ultimi 20 anni si è via via ridotto e razionalizzato, anche, ma non solo, alla luce di una maggiore competizione basata sull’aumento del numero di organismi autorizzati.
Ciò che più, però, preoccupa è insito nella proposta stessa, ovvero che si tratti di un “costo necessario”, quasi conseguenza di un male necessario, per il quale coloro che ne sono obbligati chiedono che lo Stato intervenga a ripianare/riconoscere tale costo. Questo collide con quello che viene (o dovrebbe essere?) presentato quando si parla di certificazione del biologico, ovvero uno dei pilastri su cui si regge la garanzia per il mercato e per i consumatori e che si trasforma in affidabilità e credibilità per l’intero sistema. La certificazione che passa da valore, e non certo il più ovvio per il biologico, a semplice costo che la collettività è chiamata a riconoscere non più sul valore del prodotto, a livello di prezzo d’acquisto, ma a livello fiscale, ovvero spalmata su tutti i cittadini e non solo sui consumatori.
La certificazione è stata prevista con l’obiettivo di garantire livelli di prestazione qualitativa ben superiori rispetto alla “baseline” dei prodotti convenzionali. Il consumatore si sente più garantito da una certificazione di parte terza e, fino ad ora, ha dimostrato una certa propensione a riconoscere un prezzo più elevato rispetto agli analoghi prodotti convenzionali. Siamo certi che la banalizzazione del concetto di certificazione, sotteso al riconoscimento del credito di imposta e del conseguente “unico sistema di certificazione”, farà bene al mantenimento dei caratteri distintivi del settore ed allo sviluppo dello stesso? Inoltre, qualora lo Stato concedesse il credito di imposta potrebbe esserci il rischio che richieda anche l’uniformazione delle tariffe di certificazione, di fatto minando la competizione, in termini di servizio, fra differenti organismi di certificazione che fino ad ora ha favorito il processo di miglioramento continuo del servizio.
I prodotti che nel mercato hanno più successo e spuntano maggiori vantaggi competitivi sono quelli spesso caratterizzati da schemi di certificazione ad essi collegati. Oltre al biologico troviamo l’insieme dei prodotti tipici (DOP, IGP, STG), i vini a denominazione, fra breve verranno sviluppati alcuni schemi collegati all’assorbimento del carbonio (carbon farming) ed altri percorsi nell’ambito della sostenibilità dei processi. L’argomento si complica, e non poco, perché anche per questi settori dovrebbe essere riconosciuto il credito di imposta e magari in tutti i Paesi membri per evitare distorsioni di mercato, considerato che si tratta di organizzazioni comuni di mercato (OCM) in ambito UE.
In aggiunta, con il credito di imposta minerebbe la competizione fra imprese all’interno dello stesso settore biologico poiché la stragrande maggioranza delle aziende agricole non potrebbe vederlo riconosciuto in quanto paga le imposte sui redditi catastali e non su quelli effettivi in base alla redazione di un bilancio.
Da ultimo, non corrisponde al vero che il costo di certificazione viene applicato più volte sullo stesso prodotto in quanto la tariffa viene applicata sull’operatore certificato in base alle operazioni che lo stesso esegue sul prodotto e sulla fase di filiera su cui ha competenza.
Fabrizio Piva
Il costo della certificazione? Pesa sul sistema per l’1%
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La proposta di trasformare in credito di imposta i costi di controllo e certificazione sostenuti dagli operatori del settore biologico è un errore strategico, oltre che tattico. Parte da presupposti sbagliati e giunge a conclusioni che nuoceranno all’intero settore.
Ritenere che il settore sia gravato di un costo eccessivo, quello di certificazione, che penalizza la competitività della produzione biologica è un errore aritmetico, ma soprattutto di prospettiva. Secondo fonte Nomisma il volume di fatturato biologico nazionale al 2022 si colloca intorno agli 8,4 miliardi di euro, comprendendo sia la domanda interna che quella estera. Il costo di certificazione, stimandolo sugli ultimi fatturati disponibili e depositati dagli organismi di certificazione, incide su tale fatturato per una quota intorno all’1%. Trasformare questo costo nell’elemento che penalizza la competitività del settore è un esercizio iperbolico che rischia di mettere a nudo ben altre cause di debolezza ma non certo quella di un costo che negli ultimi 20 anni si è via via ridotto e razionalizzato, anche, ma non solo, alla luce di una maggiore competizione basata sull’aumento del numero di organismi autorizzati.
Ciò che più, però, preoccupa è insito nella proposta stessa, ovvero che si tratti di un “costo necessario”, quasi conseguenza di un male necessario, per il quale coloro che ne sono obbligati chiedono che lo Stato intervenga a ripianare/riconoscere tale costo. Questo collide con quello che viene (o dovrebbe essere?) presentato quando si parla di certificazione del biologico, ovvero uno dei pilastri su cui si regge la garanzia per il mercato e per i consumatori e che si trasforma in affidabilità e credibilità per l’intero sistema. La certificazione che passa da valore, e non certo il più ovvio per il biologico, a semplice costo che la collettività è chiamata a riconoscere non più sul valore del prodotto, a livello di prezzo d’acquisto, ma a livello fiscale, ovvero spalmata su tutti i cittadini e non solo sui consumatori.
La certificazione è stata prevista con l’obiettivo di garantire livelli di prestazione qualitativa ben superiori rispetto alla “baseline” dei prodotti convenzionali. Il consumatore si sente più garantito da una certificazione di parte terza e, fino ad ora, ha dimostrato una certa propensione a riconoscere un prezzo più elevato rispetto agli analoghi prodotti convenzionali. Siamo certi che la banalizzazione del concetto di certificazione, sotteso al riconoscimento del credito di imposta e del conseguente “unico sistema di certificazione”, farà bene al mantenimento dei caratteri distintivi del settore ed allo sviluppo dello stesso? Inoltre, qualora lo Stato concedesse il credito di imposta potrebbe esserci il rischio che richieda anche l’uniformazione delle tariffe di certificazione, di fatto minando la competizione, in termini di servizio, fra differenti organismi di certificazione che fino ad ora ha favorito il processo di miglioramento continuo del servizio.
I prodotti che nel mercato hanno più successo e spuntano maggiori vantaggi competitivi sono quelli spesso caratterizzati da schemi di certificazione ad essi collegati. Oltre al biologico troviamo l’insieme dei prodotti tipici (DOP, IGP, STG), i vini a denominazione, fra breve verranno sviluppati alcuni schemi collegati all’assorbimento del carbonio (carbon farming) ed altri percorsi nell’ambito della sostenibilità dei processi. L’argomento si complica, e non poco, perché anche per questi settori dovrebbe essere riconosciuto il credito di imposta e magari in tutti i Paesi membri per evitare distorsioni di mercato, considerato che si tratta di organizzazioni comuni di mercato (OCM) in ambito UE.
In aggiunta, con il credito di imposta minerebbe la competizione fra imprese all’interno dello stesso settore biologico poiché la stragrande maggioranza delle aziende agricole non potrebbe vederlo riconosciuto in quanto paga le imposte sui redditi catastali e non su quelli effettivi in base alla redazione di un bilancio.
Da ultimo, non corrisponde al vero che il costo di certificazione viene applicato più volte sullo stesso prodotto in quanto la tariffa viene applicata sull’operatore certificato in base alle operazioni che lo stesso esegue sul prodotto e sulla fase di filiera su cui ha competenza.
Fabrizio Piva
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